La Cassazione esclude la riduzione d’ufficio del canone locatizio per situazioni emergenziali (quali il Covid-19)
di Donatella Marino, Avvocato Scarica in PDFParole chiave
Locazione – locazione commerciale – Covid19 – Decreto Cura Italia – Riduzione Canone – Eccessiva Onerosità – Contratti Sinallagmatici – Buona Fede – Onere della prova – risoluzione contratto – Rimedi Contrattuali – Prestazione Eccessiva – Sproporzione Prestazioni – Emergenza Sanitaria – Misure AntiCovid
Sintesi
La Corte di Cassazione ha enunciato il principio di diritto destinato a dirimere i numerosi contenziosi aventi ad oggetto la richiesta di riduzione giudiziale del canone di locazione commerciale in conseguenza dell’emergenza pandemica da COVID-19. Con la sentenza 16 giugno 2025, n. 16113, la Suprema Corte ha rigettato la domanda riconvenzionale proposta da una società conduttrice, la quale — a fronte di un’intimazione di sfratto per morosità — aveva invocato l’art. 91 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (“Cura Italia”), nonché i principi di buona fede e correttezza contrattuale, al fine di ottenere una riduzione del 50% dei canoni di locazione dovuti durante il periodo di lockdown. La Suprema Corte osservava che — in virtù del principio di tipicità dei rimedi giudiziali potestativi volti a provocare pronunce di natura costitutiva — non è configurabile un generico rimedio giudiziale idoneo a consentire la modifica coattiva del contenuto delle obbligazioni contrattuali in ragione del sopravvenire di eventi straordinari e imprevedibili, quale la pandemia da COVID-19. Pertanto, l’unico rimedio esperibile in tali ipotesi resta la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, ai sensi dell’art. 1467 c.c., non potendo il giudice sostituirsi alle parti nella determinazione del nuovo equilibrio sinallagmatico. La Suprema Corte ha, pertanto, dichiarato inammissibile la domanda riconvenzionale con la quale la società conduttrice chiedeva la riduzione giudiziale del canone di locazione per il periodo pandemico, in quanto rimedio non previsto dall’ordinamento e, nel caso concreto, privo di adeguata dimostrazione probatoria.
La vicenda
Nell’agosto 2020, veniva intimato a una società conduttrice, sfratto per morosità relativamente a un immobile commerciale in Torino, concessole in virtù di contratto di locazione commerciale dal marzo 2017. Veniva allegato il mancato pagamento di canoni e oneri accessori. Alla successiva udienza di convalida, la società intimata non si costituiva e i locatori riferivano che l’immobile era stato rilasciato spontaneamente già dal settembre 2020. Il giudice, pertanto, non convalidava lo sfratto né emetteva decreto ingiuntivo, disponendo invece, tra le altre, il mutamento del rito.
Con memoria integrativa, i locatori insistevano per la condanna al pagamento dei canoni e oneri dovuti mentre la società conduttrice, costituendosi, chiedeva la riduzione del 50% dei canoni durante il periodo di chiusura totale (marzo-maggio 2020) e parziale (giugno-agosto 2020) per le misure anti-Covid, invocando gli artt. 1374, 1375 c.c. e l’art. 91, co. 1, del D.L. 18/2020 (“Cura Italia”).
Con sentenza n. 2754/2021 del 28 maggio 2021, il Tribunale di Torino accoglieva le domande dei locatori, rigettando le domande riconvenzionali della conduttrice. La Corte d’Appello confermava.
Contro tale decisione, la società proponeva ricorso in Cassazione con quattro motivi, tra cui, in particolare:
- errata interpretazione dell’art. 115 c.p.c., sostenendo che il Tribunale avrebbe dovuto considerare non contestata e quindi provata la chiusura dell’attività durante il lockdown;
- violazione dell’art. 2697 c.c. sull’onere della prova e falsa applicazione degli artt. 1374 e 1375 c.c., ritenendo che il giudice avrebbe dovuto ridurre d’ufficio il canone.
La decisione
La Corte di Cassazione ha ritenuto il primo motivo inammissibile, in quanto volto a sollecitare una valutazione dei fatti e delle risultanze probatorie nuova e diversa rispetto a quella operata dal giudice di merito, che aveva correttamente rilevato la mancanza di prova del nesso causale tra la chiusura obbligatoria dell’attività imposta dalle misure emergenziali e la concreta perdita economica subita dal conduttore, nonché l’assenza di elementi documentali idonei a quantificare la contrazione dei ricavi.
Il secondo motivo è stato parimenti dichiarato inammissibile in quanto non coglieva la ratio decidendi della sentenza impugnata, che non aveva escluso in astratto la possibilità di invocare un riequilibrio contrattuale, ma aveva rigettato la domanda per difetto di prova e per la mancata attivazione di un dialogo negoziale da parte della società conduttrice, la quale non aveva promosso alcuna iniziativa formale di rinegoziazione o richiesta stragiudiziale di riduzione del canone.
La Corte ha, inoltre, precisato che l’art. 91 richiamato assume rilievo esclusivamente con riguardo al profilo dell’imputabilità dell’inadempimento, escludendo la responsabilità risarcitoria del debitore, ma non attribuendo un diritto alla modifica giudiziale delle prestazioni contrattuali. Parimenti, gli artt. 1374 e 1375 c.c. — invocati in relazione ai doveri di buona fede e correttezza — non conferiscono al giudice il potere di ridurre d’ufficio il canone in mancanza di uno specifico rimedio tipico previsto dall’ordinamento.
La Corte ha ribadito che non esiste, nel sistema civilistico italiano, un rimedio giudiziale di natura costitutiva che consenta al giudice di ridurre unilateralmente la prestazione di una parte in presenza di eventi straordinari e imprevedibili. L’unico rimedio previsto dall’ordinamento per far fronte a una sopravvenuta sproporzione tra le prestazioni è la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, ai sensi dell’art. 1467 c.c., restando salva la possibilità per la controparte di evitarne gli effetti offrendo una riduzione ad equità.
Il principio di diritto
La Corte ha avuto così modo di enunciare il seguente principio di diritto.
“In tema di contratti ad esecuzione continuata, periodica o differita, l’art. 91, comma 1, del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. decreto “Cura Italia”), assume rilievo, ai fini del giudizio di imputabilità dell’inadempimento nelle fattispecie di responsabilità contrattuale, attribuendo all’impedimento derivante dal rispetto delle misure anti-Covid, la natura di impedimento non prevedibile né superabile con la diligenza richiesta al debitore e, quindi, di causa non imputabile dell’inesecuzione della prestazione da parte sua, liberandolo dall’obbligo di risarcimento del danno ed escludendo la legittimazione della controparte all’azione di risoluzione per inadempimento” .
Da una parte, dunque, chiarisce come l’art. 91, rilevi solo in tema di imputabilità dell’inadempimento del debitore nei contratti a esecuzione continuata / periodica, attribuendo all’impedimento derivante dalle misure emergenziali la natura di causa non imputabile della mancata esecuzione della prestazione.
“Dalla norma in questione, invece, non può farsi derivare l’esistenza di un diritto potestativo giudiziale di ottenere la riduzione della prestazione dovuta in esecuzione di un rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive e ad esecuzione continuata o periodica, per effetto dell’incidenza su tale rapporto delle suddette misure restrittive anti-pandemiche. Ciò in quanto, stante il principio di tipicità dei rimedi giudiziali potestativi diretti a suscitare sentenze di carattere costitutivo (art. 2908 c.c.), un potere conservativo di riduzione ad equità della prestazione va riconosciuto alla parte eccessivamente onerata soltanto nell’ipotesi di contratto a titolo gratuito (art. 1468 c.c.), mentre, al di fuori di tale ipotesi, essa resta legittimata solo all’azione di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta”.
L’art. 91 non riconosce, al contrario, un diritto potestativo giudiziale del conduttore alla riduzione automatica del canone di locazione per effetto delle misure restrittive anti-pandemiche.
“Spetta in tal caso alla controparte che intenda evitare lo scioglimento del rapporto contrattuale un diritto potestativo di rettifica — da esercitarsi mediante negozio giuridico unilaterale e recettizio (..), e fondato sul principio di conservazione del contratto, avente ad oggetto la riduzione ad equità non della singola prestazione, ma, più in generale, del contenuto del contratto (art. 1467, terzo comma, c.c.), al fine di ripristinarne l’originario equilibrio.”
Il rimedio previsto per chi ritiene il rapporto divenuto eccessivamente oneroso, pertanto, rimane la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta o gli ulteriori strumenti a supporto della sopravvivenza del contratto previsti dall’art. 1467 c.c.
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