Irrisorietà del danno da irragionevole durata dei processi
di Valentina Baroncini, Professore associato di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDFCass., sez. II, 22 settembre 2025, n. 25917, Pres. Falaschi, Est. Amato
[1] Irragionevole durata dei processi – equa riparazione – irrisorietà del danno.
Massima: “In tema dell’equa riparazione prevista dalla Legge Pinto per l’irragionevole durata dei processi, il criterio dell’irrisorietà deve essere valutato sia oggettivamente (valore della pretesa) sia soggettivamente (condizioni personali della parte), ma non può mai essere automatico”.
CASO
[1] Una s.p.a. depositava ricorso presso la Corte d’Appello di Napoli per richiedere la corresponsione dell’indennizzo per l’irragionevole durata della procedura concorsuale, alla quale aveva partecipato in veste di creditore chirografario ammesso al passivo per un valore di Euro 34.706,00, aperta dinanzi al Tribunale di Avellino con sentenza del 14 ottobre-8 novembre 2005, e chiusa con decreto pubblicato il 18 novembre 2021.
Il Consigliere Designato riconosceva l’indennizzo nella misura di Euro 6.000,00, per il periodo eccedente la ragionevole durata.
Avverso detta pronuncia proponeva tempestiva opposizione il Ministero della Giustizia, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2, comma 2-sexies, lett. g), della legge 24 marzo 2001, n. 89, nella parte in cui stabilisce che «si presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo, salvo prova contraria nel caso di […] irrisorietà della pretesa o del valore della causa, valutata anche in relazione alle condizioni personali delle parti». A parere dell’opponente, nel caso di specie, pur non trattandosi di un valore oggettivamente esiguo, il raffronto disposto dalla norma con le condizioni soggettive dell’istante determinava la sussistenza certa e incontestabile della “esiguità”, posto che dal bilancio chiuso al 2020 dalla società istante emergevano le seguenti grandezze: capitale sociale, Euro 5.000.000,00; fatturato, Euro 72.157.607,00; crediti per Euro 22.691.356,00, e un patrimonio netto di Euro 81.616.567,00, a fronte del quale il credito preteso nella massa concorsuale appariva chiaramente insignificante e inidoneo a produrre un patimento emotivo per la durata eccessiva della procedura concorsuale in cui era richiesto.
La Corte d’Appello di Napoli accoglieva l’opposizione rilevando che: a) nell’attuazione del principio de minimis non curat praetor, il legislatore nazionale, con l’inciso «in relazione alle condizioni personali della parte», ha voluto richiamare sia il criterio oggettivo sia quello soggettivo, di talché, oltre a potersi immaginare un valore oggettivamente irrisorio, che si vuole individuare nel valore di Euro 500,00 (cfr., ex plurimis, Cass. civ., 15 ottobre 2014, n. 21861), è ben possibile raffrontare tale soglia con le grandezze economiche di alcuni soggetti istanti aventi particolare capienza e solidità; b) nel caso di specie, a fronte delle grandezze economiche indicate nel bilancio dell’anno 2020, ciò basterebbe a ricondurre il credito ammesso nella procedura fallimentare di durata irragionevole a valore irrisorio, comportante, secondo il disposto dell’art. 2, comma 2-sexies, lett. g), legge Pinto, alla presunzione di insussistenza del danno.
Avverso tale pronuncia, la s.p.a. proponeva ricorso per cassazione denunciando, in particolare, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2, comma 2-sexies, lett. g), della legge n. 89/2001, in relazione all’art. 6, par. 1 della CEDU, all’art. 1 del primo protocollo addizionale ed agli artt. 111 e 117 della Costituzione. A giudizio della ricorrente, l’interpretazione della norma riportata non sarebbe corretta, in quanto essa non ha lo scopo di rendere non indennizzabile il ritardo per soggetti “capitalizzati” – e, quindi, di restringere normativamente la platea dei soggetti destinatari della tutela di fonte convenzionale – bensì, all’esatto opposto, quello di rendere valutabile la pretesa risarcitoria per l’irragionevole durata di processi di valore modesto per la maggioranza dei consociati, ma non così per la parte interessata. Ragionando diversamente, secondo la ricorrente, si andrebbe contro l’insegnamento della Corte EDU che circoscrive il valore irrisorio a importi significativamente bagattellari, non paragonabili al valore della causa del giudizio presupposto (Euro 34.607,07, pari al valore dell’ammissione all’insinuazione al passivo), esplicitato inoltre nella “Guida pratica alle condizioni di ricevibilità” (Edizione 2021), ove si afferma il principio contrario rispetto a quello utilizzato dalla Corte napoletana; nonché contro l’insegnamento della Corte Costituzionale (sentenza 23 luglio 2015, n. 184), che ha avuto modo di precisare che le legittime scelte discrezionali del legislatore in ordine alla determinazione di quanto spetta a titolo di equa riparazione non possono incidere anche sull’an del diritto.
SOLUZIONE
[1] La Cassazione giudica fondato tale motivo di ricorso.
Per i motivi che saranno esposti di seguito, la Suprema Corte non ha ritenuto di condividere quanto affermato dalla Corte d’Appello di Napoli, la quale ha ritenuto di dover raffrontare il criterio oggettivo posto dall’art. 2, comma 2-sexies, lett. g), l. n. 89/2001, ossia l’irrisorietà della pretesa o del valore della causa – pure se nient’affatto bagattellare – con “le grandezze economiche del soggetto istante, avente particolare capienza e solidità”.
La Corte di cassazione, in accoglimento di tale motivo di ricorso, cassa il decreto e, decidendo nel merito, liquida l’indennizzo per irragionevole durata del processo in Euro 4.500,00, oltre interessi maturati dalla domanda al saldo.
QUESTIONI
[1] La questione affrontata dalla Cassazione attiene alla valutazione del criterio della irrisorietà del danno in tema di equa riparazione per irragionevole durata dei processi.
A tal riguardo, l’art. 2, comma 2-sexies, lett. g), della l. n. 89/2001 – inserito dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208 – recita che «Si presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo, salvo prova contraria, nel caso di […] irrisorietà della pretesa o del valore della causa, valutata anche in relazione alle condizioni personali della parte».
Ai fini del riconoscimento della irrisorietà della pretesa o del valore della causa, la norma non detta criteri rigidi cui ancorare la relativa valutazione, dovendosi essa apprezzare alla stregua di due elementi di valutazione: uno obiettivo, correlato al valore del bene che è oggetto della lite, e uno soggettivo, per il quale si tiene conto delle condizioni della parte.
Per quanto riguarda l’elemento oggettivo, secondo la Suprema Corte alla nozione di “irrisorietà della pretesa o del valore della causa” si deve attribuire il significato che si trae dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, la quale, nella valutazione delle condizioni di ricevibilità del ricorso ai sensi dell’art. 35, par. 3, lett. a) della CEDU, afferma che un ricorrente abusa del ricorso individuale presentato ai sensi dell’art. 34 qualora sia manifestamente privo di una reale posta in gioco, ad esempio riguardi una somma di denaro irrisoria o comunque non incida minimamente sui legittimi interessi del ricorrente (Simitzi-Papachristou e altri c. Grecia, n. 50634/11, 5 novembre 2013; Bock c. Germania, n. 22051/07, 19 gennaio 2010).
La giurisprudenza di legittimità ha, dal canto suo, parametrato la c.d. “posta in gioco”, ai sensi dell’art. 12 del Protocollo aggiuntivo n. 14 alla CEDU, ad una soglia minima di gravità al di sotto della quale il danno non sarebbe indennizzabile, ritenendo di doverla apprezzare nel duplice profilo della violazione e delle conseguenze: con la conseguenza per cui resterebbero escluse dall’ambito di tutela della legge Pinto sia le violazioni minime del termine di durata ragionevole di per sé non significative, sia quelle di maggior estensione temporale ma riferibili a giudizi presupposti di carattere bagatellare, in cui esigua è la posta in gioco e trascurabili i rischi sostanziali e processuali connessi (così, Cass. civ., 14 gennaio 2014, n. 633; Cass. civ., 13 dicembre 2023, n. 34861).
Ancora, a base della corretta esegesi della norma in discorso, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato due esigenze e un correttivo (Cass. civ., 1° agosto 2023, n. 23384): da un lato, impedire “sovracompensazioni” e diseconomici ricorsi alla giurisdizione; dall’altro, evitare che l’esiguità della posta in gioco sia espressa da un dato assoluto e oggettivo, scisso dalle condizioni personali di chi quella pretesa ha perseguito o ha subìto nel giudizio presupposto.
Nel caso di specie, non ricorreva l’esigenza posta alla base della norma richiamata (impedire sovracompensazioni), essendo il credito vantato dalla s.p.a. ricorrente (Euro 34.607,07) ben superiore all’esiguità della posta in gioco (Euro 500,00); né, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, vi era necessità di applicare il correttivo (condizioni economiche di capienza della richiedente) – applicato automaticamente dalla Corte d’Appello di Napoli – tra l’importo dell’istanza di insinuazione al passivo e il patrimonio societario; operazione che esclude tout court il pregiudizio in favore delle società con un considerevole volume d’affari che agiscono in diverse procedure per il recupero dei credito (di recente, tra le altre Cass. civ., 30 aprile 2025, n. 11442).
Il ricorso alla presunzione iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo deve, dunque, prendere le mosse dal fatto noto – percepito e accertato dal giudice del merito sulla base di evidenze probatorie non costituite, a loro volta, da presunzioni – che la pretesa azionata o il valore della causa nel giudizio presupposto sia “irrisoria”, cioè manifestamente priva di una reale posta in gioco, in tal modo valutata “anche” in relazione alle condizioni personali della parte.
La determinazione della consistenza della pretesa e del valore della causa, agli effetti in esame, non può che compiersi sulla base della reale portata dell’interesse della singola parte alla decisione, effettuando altresì un giudizio di comparazione tra l’importo della somma in gioco e la situazione socioeconomica dell’istante (sul punto, Cass. civ., 4 ottobre 2018, n. 24362; Cass. civ., 17 gennaio 2020, n. 974).
Il riferimento alle “condizioni personali della parte” assume, poi, una specifica dimensione ove si tratti di equa riparazione per irragionevole durata del processo in favore di persone giuridiche, e in particolare di società di capitali, per il danno provocato alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri (secondo le indicazioni delle sentenze della Corte EDU, 6 aprile 2000, Comingersoll SA c. Portugal; 8 giugno 2004, Clinique Mozart s.a.r.l. c. France), giacché le esigenze di adeguata patrimonializzazione di tali soggetti, imposte dalla vocazione imprenditoriale, non possono costituire automatica ragione di esclusione dei medesimi dalla titolarità del diritto all’indennizzo.
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