Accettazione presunta dell’eredità e incapacità naturale
di Matteo Ramponi, Avvocato Scarica in PDFCassazione Civile, Sez. 2, Sentenza n. 23309 del 14/08/2025
Successioni “mortis causa” – Accettazione dell’eredità (pura e semplice) – Beneficio di inventario – Chiamato possessore di beni ereditari – Acquisto ex lege dell’eredità – Art. 485 cod. civ. – Operatività – Presupposti – Onere della prova – Fattispecie
Massima: “L’acquisito ex lege dell’eredità ai sensi dell’art. 485 cod. civ. presuppone, in chi ne faccia valere la validità, la dimostrazione, nel chiamato in possesso di beni ereditari, della capacità naturale di agire del medesimo, ossia della capacità di intendere e di volere e, dunque, della consapevolezza di possedere beni facenti parte di un’eredità a lui devoluta”.
Disposizioni applicate
Articolo 485 cod. civ.
[1] Tizio, in proprio e nella qualità di tutore del figlio Caio, conveniva in giudizio Caia e Mevio, chiedendo lo scioglimento della comunione relativa ad un immobile originariamente appartenente a Filana e Caiona, la quale era deceduta lasciando eredi legittimi i due attori Tizio e Caio, rispettivamente coniuge e figlio della defunta. Precisava, poi, che era deceduta anche Filana, cui erano subentrati, in forza di testamento, i nipoti Caia e Mevio.
Sul complesso delle domande è intervenuta sentenza non definitiva che ha ridefinito le quote di spettanza dei singoli comunisti, in ragione di un intervenuto atto di rinuncia da parte di Tizio, a favore di Filana, della propria quota di comproprietà.
La sentenza di primo grado ha quindi disposto lo scioglimento della comunione in ragione delle quote del 37,50% ciascuno in capo a Caia e Mevio e del 25% a Caio ed ha accertato, per quanto qui di maggior interesse, che Caio era divenuto erede della madre Caiona in applicazione di quanto dispone l’art. 485 cod. civ. In proposito il Tribunale osservava che Caio aveva continuato ad abitare nella casa familiare insieme al padre, senza curare il compimento dell’inventario nel termine previsto dalla norma.[1]
La Corte d’appello, in relazione oggetto della presente analisi, rigettava il motivo d’appello inteso a negare che Caio avesse potuto accettare l’eredità della madre. In proposito essa osservava che il medesimo Caio era stato interdetto solo diverso tempo dopo la morte della madre, non essendo rilevante che egli fosse affetto sin dalla nascita dalla sindrome di down, perché tale sindrome, di per sé, non pregiudica la capacità del soggetto e dovendo d’altra parte l’incapacità essere accertata in concreto al momento del fatto. Una volta proposta tale considerazione soggettiva, riguardante la mancata prova dell’incapacità naturale, la Corte d’appello precisava che Caio, “sebbene unitamente al padre, aveva convissuto nell’immobile oggetto del giudizio” e che fosse “ininfluente ai fini del possesso (ex art. 485 cod. civ.) che il padre, convivente con il figlio, dopo la morte della madre, avesse un suo autonomo diritto di abitazione stante la diversità dei diritti e la mancata opposizione in tal senso del padre, unico soggetto legittimato a farlo”.
[2] Veniva proposto ricorso in Cassazione da Caia; presentava distinto ricorso anche Mevio e Caio depositava controricorso.
La Suprema Corte riuniva i due ricorsi e viene in esame in questa sede il primo motivo di ricorso promosso da Caia, con il quale veniva denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 414, 471 e 428 cod. civ. per avere la sentenza di merito riconosciuto la capacità naturale di Caio in astratto, senza considerare che lo stesso, dopo l’apertura della successione della madre, è stato dichiarato interdetto: “il che imponeva un accertamento concreto e personalizzato, mentre la Corte d’appello aveva riconosciuto la capacità sulla base della mera considerazione che, di per sé, l’infermità di cui era affetto Tizio non pregiudica necessariamente la capacità del soggetto”.
Gli Ermellini hanno ritenuto fondato tale motivo, affermando che “costituisce principio acquisito che il riferimento dello stato di incapacità di intendere e di volere, come motivo di invalidità del negozio, al momento in cui questo e stato posto in essere, non deve essere inteso in senso assoluto in relazione a quel preciso momento, potendo aversi, invece, riguardo alle condizioni in cui il soggetto si trovava prima e dopo il compimento dell’atto, al fine di accertare, nel caso in cui l’infermità sia dovuta a malattia, se questa sia suscettibile di regresso, di stabilita o di miglioramento, come utile elemento di giudizio per stabilire se la malattia manifestatasi anteriormente o successivamente possa ritenersi sussistere anche nel momento in cui fu posto in essere l’atto impugnato. In questo ordine di idee, è stato chiarito che, quando sussista una situazione di malattia mentale di carattere permanente, ricade su chi pretende la validità dell’atto l’onere di dimostrare l’esistenza di un eventuale lucido intervallo, tale da ridare al soggetto l’attitudine a rendersi conto della natura e dell’importanza dell’atto”.[2]
Se è vero che, nel caso di specie, la sentenza di interdizione era intervenuta ad oltre tre anni di distanza dall’apertura della successione, a giudizio della Suprema Corte tale elemento “imponeva ai giudici di merito di estendere l’indagine, nel senso sopra chiarito, sulla natura e i caratteri della infermità”.
Nel caso in esame la sentenza di merito ha riscontrato l’esistenza della fattispecie di cui all’art. 485 cod. civ., che è considerata tradizionalmente come un’ipotesi in cui l’acquisto dell’eredità avviene ex lege, a seguito del mancato compimento dell’inventario da parte del chiamato nel possesso di beni ereditari Tuttavia, “vale pur sempre la regola che la titolarità di un rapporto possessorio presuppone la capacità naturale di agire del soggetto, cioè la capacità di intendere e di volere”. [3]
L’elemento obiettivo del possesso di beni ereditari, dunque, è presupposto necessario, ma non sufficiente ai fini della realizzazione dell’acquisto legale delineato dall’art. 485 cod. civ. Si richiede infatti che il chiamato sia altresì consapevole di possedere beni facenti di un’eredità a lui devoluta.
[3] La sentenza in commento offre lo spunto per un breve esame della c.d. accettazione presunta di eredità.
Come accennato, ai sensi dell’art 485 cod. civ., il chiamato all’eredità, quando a qualsiasi titolo è nel possesso di beni ereditari, deve fare l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione o della notizia della devoluta eredità e, qualora non rispetti tale termine, è considerato erede puro e semplice. L’acquisto della qualità di erede, dunque, si realizza, ex lege, la qualità di erede si acquista ipso iure, in virtù di una situazione giuridica obiettivamente considerata.[4]
Si tratta, quindi, di un’ipotesi di accettazione dell’eredità che, apparentemente, prescinde tanto da qualsiasi manifestazione di volontà, quanto dal compimento di alcun atto da parte del chiamato.
La ratio della norma risiede nella necessità di evitare situazioni di incertezza giuridica.
Tuttavia, come visto, per la giurisprudenza, il fatto obiettivo del possesso rappresenta un presupposto necessario ma non sufficiente per la realizzazione dell’acquisto legale delineato dalla norma, dovendosi rinvenire un ulteriore elemento di carattere soggettivo, ovvero che il chiamato sia consapevole di possedere beni facenti parte di un’eredità a lui devoluta.
A bene vedere, ciò che difetta, nel caso in analisi, è addirittura il presupposto logico alla valutazione stessa dell’elemento temporale che porta all’acquisto dell’eredità. Come, infatti, chiarito dalla Suprema Corte, la titolarità di un rapporto possessorio presuppone necessariamente la capacità naturale di agire del soggetto, ossia la capacità di intendere e di volere.
[1] Ed è appena il caso di precisare che, poiché l’immobile (sebbene astrattamente qualificabile quale casa coniugale di Tizio e della di lui moglie, inquanto effettivamente destinata a loro abitazione) risultava in comproprietà con un soggetto terzio, cià impediva il sorgere dle diritto ex art. 540, 2° comma, cod. civ.. In tal senso, si vedano Cass. Civ. n. 29162/2021: “Il diritto di abitazione nella casa adibita a residenza familiare, sancito dall’art. 540 c.c. in favore del coniuge sopravvissuto, sussiste qualora detto cespite sia di proprietà del “de cuius” ovvero in comunione tra questi ed il coniuge superstite, mentre esso, al contrario, non sorge ove il bene sia in comunione tra il coniuge deceduto ed un terzo, non essendo in questo caso realizzabile l’intento del legislatore di assicurare, in concreto, al coniuge sopravvissuto il godimento pieno del bene oggetto del diritto; in tale ultima evenienza, peraltro, non spetta a quest’ultimo neppure l’equivalente monetario del citato diritto, nei limiti della quota di proprietà del defunto, poiché, diversamente, si attribuirebbe un contenuto economico di rincalzo al diritto di abitazione che, invece, ha un senso solo ove apporti un accrescimento qualitativo alla successione del coniuge sopravvissuto, garantendo in concreto il godimento dell’abitazione familiare” e Cass.Civ. n. 6691/2000.
[2] In tal senso, si vedano Cass. Civ. n. 17130/2011; Cass. Civ. n. 11883/1997
[3] È la stessa pronuncia in commento a richiamare, al riguardo, i precedenti di Cass. Civ. n. 22776/2004: “Per acquistare il possesso è sufficiente la capacità d’intendere e di volere (capacità naturale) della quale può essere dotato in concreto anche il minore di età”; e Cass. Civ. n. 6878/1986: “Per essere titolare di un rapporto possessorio diretto, trattandosi di un atto giuridico volontario e non di attività negoziale, è sufficiente la capacità naturale di agire, cioè la capacità di intendere e di volere della quale può essere dotato in concreto anche il minore di età, poiché soltanto la assoluta incapacità di volere vale ad escludere l’elemento intenzionale del possesso”.
[4] CAPOZZI, Successioni e donazioni, op. cit., pag. 251; MAESTRONI, Possesso dei beni ereditari, acquisto ex lege e rinuncia all’eredità, in Rivista del Notariato, 1996, pag. 757.
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