Decesso del coniuge in comunione legale unico intestatario di un rapporto di conto corrente
di Matteo Ramponi, Avvocato Scarica in PDFTribunale civile di Arezzo, sentenza n. 307 del 6 maggio 2025
Famiglia – Matrimonio – Rapporti patrimoniali tra coniugi – Comunione legale – Regime degli acquisti – Titoli e depositi in conto corrente bancario – Morte del titolare – Acquisizione al patrimonio comune – Configurabilità – Fondamento – Conseguenze
*Il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato – in regime di comunione legale dei beni – soltanto ad uno dei coniugi e nel quale siano affluiti proventi dell’attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente entra a far parte della comunione legale dei beni, ai sensi dell’art. 177, primo comma, lett. c), cod. civ., al momento dello scioglimento della stessa, determinato dalla morte, con la conseguente insorgenza, solo da tale epoca, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo, perché il denaro depositato presso un conto corrente di per sé non comporta investimento né incremento di ricchezza, non costituisce dunque un acquisto in senso lato suscettibile di entrare in comunione legale immediata, ma un modo di custodire il denaro stesso, e rientra, come già argomentato, nella comunione legale de residuo nella misura di quanto eventualmente sussista al momento dello scioglimento della comunione.
* Massima non ufficiale
Disposizioni applicate
Articoli 177, 179 e 195 cod. civ.
[1] Per quanto di interesse nella presente sede, il giudizio in relazione al quale è stata pronunciata la sentenza in oggetto imponeva al giudicante una valutazione in merito alla sorte di un conto corrente intestato ad un coniuge in regime di comunione legale, venuto a mancare lasciando a sé superstiti la moglie e due figli.
In particolare, all’apertura della successione di Tizio, quest’ultimo risultava, tra l’altro, unico intestatario di un conto corrente e cointestatario insieme alla figlia di altro rapporto di conto corrente.
Tra le parti in causa sorgeva contestazione circa l’importo da tenere in considerazione ai fini dello scioglimento della comunione ereditaria, ritenendosi da parte di uno dei figli che il saldo dei conti correnti fosse di esclusiva spettanza del defunto e pertanto rientrasse interamente nell’asse ereditario; il coniuge superstite sosteneva, invece, che cadesse in successione solo la quota di metà, a lei spettando la residua quota in ragione del regime di comunione legale dei beni esistente tra i coniugi.
[2] Sul punto, il Tribunale di Arezzo ha ritenuto che dovessero ritenersi ricadere nella c.d. comunione legale de residuo tanto le somme giacenti sul conto corrente intestato unicamente al de cuius quanto quelle rivenienti dal conto corrente cointestato con la figlia (in relazione a tale ultimo rapporto, e stato dimostrato in giudizio che la cointestazione fosse solo formale, dovendosi riconoscere la provenienza delle somme depositate in capo al solo defunto).
Per giungere a tale conclusione, il Giudice ha richiamato i principi già espressi dalla Suprema Corte[1], affermando che “il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato – in regime di comunione legale dei beni – soltanto ad uno dei coniugi e nel quale siano affluiti proventi dell’attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente entra a far parte della comunione legale dei beni, ai sensi dell’art. 177, primo comma, lett. c), cod. civ., al momento dello scioglimento della stessa, determinato dalla morte, con la conseguente insorgenza, solo da tale epoca, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo, perché il denaro depositato presso un conto corrente di per sé non comporta investimento né incremento di ricchezza, non costituisce dunque un acquisto in senso lato suscettibile di entrare in comunione legale immediata, ma un modo di custodire il denaro stesso, e rientra, come già argomentato, nella comunione legale de residuo nella misura di quanto eventualmente sussista al momento dello scioglimento della comunione”.
[3] La pronuncia in commento offre lo spunto per analizzare le problematiche sottese all’intestazione di rapporti bancari in capo ad uno solo dei coniugi in comunione legale dei beni.
Come noto, la riforma del 1975 ha introdotto quale regime legale dei rapporti patrimoniali tra coniugi quello della comunione.
È il legislatore stesso, poi, a distinguere tra beni che cadono immediatamente in comunione e beni che vi rientrano solo al momento dello scioglimento della comunione stessa (e ricordiamo, ai fini che qui interessano, che la morte di uno dei coniugi rientra tra le cause di scioglimento previste dall’art. 191 cod. civ.).
Al riguardo, è l’art. 177 cod. civ. a configurare la cosiddetta “comunione de residuo”.
In particolare, quest’ultima comprende (comma 1 lettera c), “i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati“.
In giurisprudenza si è, anche di recente, chiarito che “i beni oggetto della comunione de residuo rimangono ‘propri’ del coniuge titolare sino al momento dello scioglimento, momento nel quale (a differenza dei beni ‘personali’) entreranno a far parte di una situazione di contitolarità, che costituisce il presupposto della divisione in parti uguali”.[2]
Con particolare riferimento ai rapporti bancari, appare ormai pacifico che il saldo attivo di un conto corrente, intestato – in regime di comunione legale dei beni – soltanto ad uno dei coniugi, se ancora sussistente al momento di apertura della successione entra a far parte della comunione de residuo, al momento dello scioglimento della stessa, determinato dalla morte, con la conseguente insorgenza, da tale epoca, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo; lo scioglimento attribuisce invero al coniuge superstite una contitolarità propria sulla comunione e, attesa la presunzione di parità delle quote, un diritto proprio, e non ereditario, sulla metà dei frutti e dei proventi residui, già esclusivi del coniuge defunto.[3]
È, tuttavi, fatta salva la prova che i fondi depositati in conto corrente abbiano un’origine che ne escluda il ricadere in comunione ai sensi dell’art. 179 cod. civ..
Tra tali ipotesi, rientrano i casi di denaro proveniente da successione o donazione ovvero quello ricavato dalla vendita di un bene personale.
Ma, cosa accade se tali somme vengono depositate in conto corrente e, a maggior ragione, quale sarà la sorte di detti importi allorché il conto corrente sia oggetto di movimentazioni nel corso degli anni?
Al riguardo, deve ricordarsi come la Giurisprudenza di legittimità abbia affermato che “il denaro ottenuto a titolo di prezzo per l’alienazione di un bene personale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga dal medesimo accantonato sotto forma di deposito bancario sul proprio conto corrente, giacché il diritto di credito relativo al capitale non può considerarsi modificazione del capitale stesso, né è d’altro canto configurabile come un acquisto nel senso indicato dall’art. 177, primo comma, lettera a), cod. civ., cioè come un’operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo nell’assetto patrimoniale del depositante. Pertanto, il coniuge può utilizzare le somme accantonate sul di lui conto corrente, provenienti dall’alienazione di un bene personale, ai fini della surrogazione reale di cui all’art. 179, primo comma, lettera f), cod. civ.”.[4]
In sostanza, all’interno del patrimonio di ciascun coniuge si vengono a delineare, in tali casi, due distinte masse di denaro: la prima costituita dai proventi dell’attività separata (che rientreranno nella comunione de residuo), la seconda dal denaro proveniente dai beni personali elencati nell’art. 179 cod. civ., che rimane escluso dalla comunione e può essere oggetto di surrogazione reale.
Il problema, tuttavia, sorge allorché il conto sul quale sono state depositate le somme sia oggetto di movimentazioni frequenti e sullo stesso vi confluiscano altri importi (si immagini l’accredito periodico dello stipendio o della pensione).
In tali situazioni, la giurisprudenza ha chiarito che “attesa la natura di bene fungibile e consumabile del denaro, la distinzione tra queste due masse patrimoniali liquide è ardua perché se per la prova della provenienza del danaro può essere sufficiente un estratto conto bancario, ad una certa data, quel che resta difficile è provare che le spese per i bisogni della famiglia non siano state sostenute con quel denaro.
(…) resta allora il problema di provare non già soltanto la proprietà di una certa somma prima del matrimonio o la sua provenienza da successione o donazione, ma l’ulteriore fatto che il denaro che resta non sia “familiare” ma “personalissimo” perché specificamente “conservato” e non utilizzato per i bisogni della famiglia”.
Diviene pertanto indispensabile che il coniuge titolare distingua (…) quanto denaro, appartenendogli prima del matrimonio o provenendo dai «titoli» elencati nell’art. 179, sia andato a costituire una sorta di patrimonio separato”.[5]
E viene facile realizzare quanto una simile prova sia estremamente complicata (se non diabolica) ogniqualvolta il conto personale sia quello utilizzato abitualmente per far fronte alle esigenze famigliari.
Un’ultima ipotesi merita di essere analizzata, ed è quella che può verificarsi allorché il coniuge in comunione versi il denaro proveniente dalla vendita di un bene personale su un conto corrente cointestato con altro soggetto (sia esso il coniuge od un terzo).
Nell’ottica dei giudici di merito, [6] “la cointestazione anche all’altro coniuge è un mezzo inequivoco della manifestazione della volontà di mettere in comunione l’acquisto, indipendentemente dalla natura personale o meno della provvista” ed effettivamente e più in generale può affermarsi che il versamento di somme originariamente personali su un conto intestato con altro soggetto sia indice di una volontà contraria a mantenere tali somme come personali.
Solo a fronte di una documentata e rigorosa gestione separata dei flussi di denaro, dunque, sarà possibile mantenere la natura personale dei soldi versati in conto corrente, tanto quando esso è intestato al solo coniuge disponente, quanto (ed a maggior ragione) allorché il rapporto bancario presenti altri cointestatari.
[1] È la stessa sentenza in commento a richiamare e fare suoi i precedenti di Cass. Civ. n. 19567/2008 e n. 9845/2012. Si veda anche Cass. Civ. n. 4393/2011
[2] Così, Tribunale civile di Messina, sentenza n. 563 del 24/03/2025
[3] Così, tra le molte, Cass. Civ. n. 19567/2008; Cass. Civ. n. 4393/2011; Cass. Civ. n. 10386/2009
[4] Cass. Civ. n. 1197/2006
[5] Corte d’appello civile di Genova, sentenza n. 75 del 20/01/2025
[6] Corte d’appello di Genova n. 75/2025 cit. Si veda anche Cass. Civ. n. 24061/2008
Centro Studi Forense - Euroconference consiglia


