2 Dicembre 2025

Deposito in appello di documenti non prodotti in primo grado nel rito lavoro

di Valentina Baroncini, Professore associato di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDF

Cass., sez. lav., 11 novembre 2025, n. 29741, Pres. Doronzo, Est. Amendola

[1] Processo di cognizione – Controversie individuali di lavoro – Appello – Deposito di nuovi documenti – Ammissibilità.

Il deposito in appello di documenti non prodotti in prime cure non è oggetto di preclusione assoluta e il giudice può ammettere, anche d’ufficio, detti documenti ove li ritenga indispensabili ai fini della decisione, in quanto idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, purché allegati nell’atto introduttivo, seppure implicitamente, e sempre che sussistano significative “piste probatorie” emergenti dai mezzi istruttori, intese come complessivo materiale probatorio, anche documentale, correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado.

CASO

[1] La vicenda oggetto del presente commento origina dal ricorso presentato da un lavoratore dipendente presso un istituto di credito per l’accertamento dell’inquadramento contrattuale e la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive.

In riforma della sentenza di rigetto emessa all’esito del giudizio di prime cure, e “previo svolgimento di attività istruttoria”, la Corte d’Appello di Catania accoglieva parzialmente le domande attoree. In particolare, il giudice di secondo grado evidenziava l’errore commesso dal tribunale nel non aver ordinato l’esibizione dei fogli presenza, aventi ad oggetto circostanze determinanti ai fini di accertare l’inquadramento contrattuale del lavoratore; conseguentemente, la Corte considerava “ammissibile e rilevante la documentazione prodotta dall’appellante acquisendola ai sensi degli artt. 421 e 437 c.p.c.”, giungendo al convincimento circa l’esatto inquadramento contrattuale del ricorrente.

Avverso tale decisione, l’istituto di credito proponeva ricorso per cassazione denunciando, per quanto di interesse ai fini del presente commento, violazione e falsa applicazione, ex art. 360, n. 3), c.p.c., degli artt. 345, 3°co., e 437, 2°co, c.p.c., criticando la Corte territoriale per avere acquisito in grado d’appello i “fogli presenza”, nonostante il primo giudice avesse dichiarato la decadenza dell’attore con ordinanza istruttoria e contestandone l’indispensabilità.

SOLUZIONE

[1] La Cassazione, per i motivi che verranno di seguito illustrati, giudica infondato tale motivo di ricorso, mediante il quale parte ricorrente ha sostanzialmente contestato l’acquisizione in secondo grado dei fogli delle presenze, prodotti dalla difesa del lavoratore solo innanzi alla Corte d’Appello.

Rigettato il ricorso, la decisione emessa dalla corte siciliana ha trovato integrale conferma.

QUESTIONI

[1] La questione affrontata dalla Cassazione riguarda l’ammissibilità, in grado d’appello, di prove documentali prodotte dalla parte solo davanti al giudice di seconde cure.

Il dato normativo da cui muovere, nel caso di specie, non è tanto rappresentato dalla norma generale di cui all’art. 345, 3°co., c.p.c. – il quale, come noto, prevede che nel giudizio d’appello non possano essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile – bensì il successivo art. 437, 2°co., c.p.c., che con specifico riguardo al processo del lavoro dispone che «Non sono ammessi nuovi mezzi di prova […] salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa».

Sul concetto di indispensabilità della prova nuova ai fini della decisione della causa è doveroso richiamare il noto arresto di Cass. civ., sez. un., 4 maggio 2017, n. 10790 (in Riv. dir. proc., 2019, 547 ss., con nota di E. Merlin, Indispensabilità delle prove e giudizio di appello), la quale, con riguardo al previgente testo dell’art. 345, 3°co., c.p.c., ha avuto modo di chiarire come, a tal fine, debba intendersi la prova di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado (conf., tra le più recenti, Cass. civ., sez. lav., 21 giugno 2025, n. 16646, secondo cui “Nel rito del lavoro costituisce prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 437, 2°co., c.p.c., quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio, oppure provando quel che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado”; e Cass. civ., sez. lav., 12 giugno 2024, n. 16358).

Ciò vale, a maggior ragione, all’interno del processo del lavoro. Come insegnato dalla stessa giurisprudenza di legittimità, infatti, in tale rito occorre contemperare il principio dispositivo con quello dell’accertamento della verità, sicché, ai sensi dell’art. 437, 2°co., c.p.c., il deposito in appello di documenti non prodotti in prime cure non è oggetto di preclusione assoluta e il giudice può ammettere, anche d’ufficio, detti documenti ove li ritenga indispensabili ai fini della decisione, in quanto idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, purché allegati nell’atto introduttivo, seppure implicitamente, e sempre che sussistano significative “piste probatorie” emergenti dai mezzi istruttori, intese come complessivo materiale probatorio, anche documentale, correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado (in tal senso, Cass. civ., sez. lav., 19 agosto 2024, n. 22907; Cass. civ., sez. lav., 15 maggio 2018, n. 11845).

Tale indirizzo è quello seguito dalla Cassazione nella pronuncia in commento, la quale ha rilevato come i giudici d’appello abbiano, evidentemente, in modo corretto effettuato un giudizio di idoneità, delle nuove prove documentali allegate in secondo grado, a eliminare incertezze sulla sussistenza dei fatti costitutivi della pretesa del ricorrente.

A tal riguardo si ricorda, peraltro, come il recente arresto di Cass. civ., 27 novembre 2023, n. 32815, abbia statuito che nel giudizio di legittimità, qualora venga dedotta l’erroneità dell’ammissione o della dichiarazione di inammissibilità di una prova documentale in appello, la Suprema Corte, in quanto chiamata ad accertare un error in procedendo, è giudice del fatto, ed è, quindi, tenuta a stabilire se si trattasse in astratto di prova indispensabile, ossia teoricamente idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione dei fatti di causa.

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