Incapacità a testimoniare e valutazione di attendibilità del teste
di Valentina Baroncini, Professore associato di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDFCass., sez. III, 9 settembre 2025, n. 24867, Pres. Rubino, Est. Guizzi
Massima: “L’incapacità a testimoniare – da eccepirsi tempestivamente dalla parte e non rilevabile d’ufficio – resta distinta dalla valutazione della attendibilità del teste, attenendo esse a profili del tutto diversi”.
CASO
[1] In seguito a un sinistro stradale, il danneggiato proponeva dinanzi al giudice di pace di Imperia domanda risarcitoria nei confronti del soggetto danneggiante e della società assicuratrice dello stesso, addebitandogli l’intera responsabilità di quanto occorso. La dinamica del sinistro veniva confermata da due testimoni dell’attore (terzi trasportati a bordo della vettura del medesimo).
La domanda, addebitata la responsabilità del sinistro all’attore, veniva rigettata, con decisione confermata all’esito dell’appello proposto dinanzi al Tribunale d’Imperia. In particolare, nella sua pronuncia il giudice di secondo grado ha affermato che la ricostruzione dei fatti, operata dai militi accorsi sul luogo del sinistro, secondo cui la responsabilità del sinistro era da addebitarsi integralmente all’attore, appariva “sorretta da elementi logici coerenti”. Sempre secondo tal sentenza, a fronte di tale ricostruzione “parte attrice e odierna appellante avrebbe dovuto fornire una ricostruzione di valore logico decisamente prevalente, il che non è stato perché l’elemento di sostegno alla ricostruzione alternativa (la testimonianza di due persone trasportate, entrambi danneggiati, una delle quali fratello convivente del conducente dell’autovettura, della cui attendibilità soggettiva era comunque lecito dubitare) è stato congruamente ritenuto meno solido dell’elemento estraneo che sostiene la ricostruzione degli operanti”, ossia la “testimonianza di persona certamente presente ai fatti, sentita nell’immediatezza, senza alcun legame con una delle parti, che, peraltro, le confermava in sede di udienza”.
La decisione di seconde cure veniva così fatta oggetto, da parte del danneggiato soccombente, di ricorso per cassazione mediante il quale censurava, ai sensi dell’art. 360, n. 4), c.p.c., violazione dell’art. 246 c.p.c., per avere la sentenza impugnata dichiarato incapaci a testimoniare i testimoni (sul presupposto che, in quanto terzi trasportati, essi fossero portatori di “un interesse che potrebbe legittimare la partecipazione al giudizio”), e ciò sebbene il danneggiante convenuto, in sede di escussione, non avesse eccepito la loro incapacità a testimoniare: eccezione, peraltro, da sollevarsi immediatamente dopo l’assunzione della prova, pena, altrimenti, la sanatoria della nullità della deposizione, trattandosi di nullità relativa.
SOLUZIONE
[1] La Cassazione giudica fondato tale motivo di ricorso.
Il giudice d’appello, infatti, non solo avrebbe rilevato d’ufficio l’incapacità a testimoniare dei due testi (dando rilievo, per entrambi, alla condizione di terzi trasportati a bordo della vettura di proprietà dell’attore, nonché, per il secondo, al rapporto di parentela che lo legava al ricorrente), ma avrebbe fatto poi discendere da tale incapacità – non tempestivamente eccepita da alcuna delle parti – una sorta di presunzione di inattendibilità di quanto da essi dichiarato.
In tal modo, il giudice d’appello avrebbe erroneamente sovrapposto profili – l’incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c. (peraltro, come detto, non eccepita da alcuno), e l’inattendibilità delle dichiarazioni dei testi – che avrebbe dovuto tenere distinti, finendo per dare prevalenza a una ricostruzione non tanto perché “sorretta da elementi logici coerenti”, quanto, piuttosto, perché quella “alternativa” risultava affetta da un vizio inerente alla condizione soggettiva dei due testi.
Conseguentemente, la Cassazione ha accolto tale motivo di ricorso, cassando la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Imperia, in persona di diverso magistrato, per la decisione sul merito e per la liquidazione delle spese di lite.
QUESTIONI
[1] La questione affrontata dalla Cassazione attiene alla definizione della disciplina dell’incapacità a testimoniare di cui all’art. 246 c.p.c., e alle conseguenze giuridiche discendenti dal suo riscontro nel corso di un giudizio.
In via preliminare si ricorda che il richiamato art. 246 c.p.c., rubricato «Incapacità a testimoniare», statuisce che «Non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio» in qualità di parti. Tale disposizione è intesa nel senso di escludere dalla prova testimoniale i titolari di una situazione sostanziale connessa a quella oggetto del processo e idonea, in quanto tale, a legittimare la loro partecipazione al giudizio, sotto qualsiasi veste.
Come noto, il legislatore ha scelto di operare una valutazione ex ante della fattispecie considerata, facendo discendere dall’integrazione della stessa l’inammissibilità stessa della prova testimoniale, anziché domandare al giudice, a valle, di operare una valutazione di attendibilità della testimonianza resa (sul punto, L. Dittrich, I limiti soggettivi della prova testimoniale, Milano, 2000, 139 ss.).
Tale distinguo è chiaramente evidenziato anche dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha in più occasioni ribadito che la “capacità a testimoniare differisce dalla valutazione sull’attendibilità del teste, operando le stesse su piani diversi, atteso che l’una, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., dipende dalla presenza di un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti e anche all’eventuale interesse a un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità” (tra le più recenti, Cass. civ., 9 agosto 2019, n. 21239; Cass. civ., 30 settembre 2021, n. 26547).
Tali principi sembrano però essere stati effettivamente disattesi dal Tribunale d’Imperia il quale ha apprezzato la maggiore attendibilità di alcuni testimoni non – come avrebbe dovuto – confrontando la plausibilità delle dichiarazioni da quelli rese rispetto ad altre, bensì per essere stati, detti testimoni, “imparziali” rispetto ad altri ritenuti “incapaci” ex art. 246 c.p.c.
Da ultimo, è opportuno altresì ricordare il particolare regime di rilevabilità dei vizi attinenti alla prova testimoniale. In particolare, le violazioni delle norme in materia di limiti soggettivi della prova testimoniale: a) darebbero luogo a nullità rilevabili soltanto in forza di apposita eccezione di parte (Cass. civ., 29 gennaio 2013, n. 2075); b) da sollevarsi, a pena di decadenza, in sede di assunzione della prova (Cass. civ., sez. un., 23 settembre 2013, n. 21670; Cass. civ., 23 novembre 2016, n. 23896) ovvero, in caso di assenza del difensore alla relativa udienza, nella prima difesa successiva (Cass. civ., 19 agosto 2014, n. 18036); c) e necessiterebbero altresì di formale reiterazione, per non doversi intendere come implicitamente rinunciata, all’atto della precisazione delle conclusioni (Cass. civ., sez. un., n. 21670/2013, cit.; Cass. civ., n. 23896/2016, cit.) (sul punto, M. Montanari, I limiti soggettivi della prova testimoniale, in www.eclegal.it, 6 novembre 2018).
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