6 Giugno 2017

La prova del danno da demansionamento

di Evangelista Basile Scarica in PDF

Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 12 aprile 2017, n. 9380

Demansionamento – Mobbing – Risarcimento – Non sussiste

MASSIMA

Deve ritenersi che, nonostante la dequalificazione accertata che dà diritto al lavoratore a ottenere le differenze retributive con l’inquadramento al livello superiore, debbano essere esclusi il danno da mobbing, perché non è dimostrato che gli atti accertati fossero diretti a perseguitare o emarginare il dipendente, e il danno da demansionamento, laddove, pur trattandosi di pregiudizio in astratto ipotizzabile rispetto alla sfera della professionalità, per effetto del riconosciuto demansionamento, deve rilevarsi la mancanza di specifiche allegazioni sul punto, di guisa che non possono neppure configurarsi gli estremi di utili presunzioni.

COMMENTO

L’art. 2087 c.c. dispone che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”; Tale summenzionato articolo deve essere inteso quale “referente normativo” per le condotte qualificabili in termini di mobbing.

Infatti, in assenza di una specifica definizione legislativa, il concetto di mobbing è stato circoscritto dalla Corte di Cassazione quale condotta del datore di lavoro, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni – di vario tipo ed entità – al dipendente medesimo, occorrendo la prova quindi anche di una esplicita volontà di emarginare il dipendente in vista di una sua espulsione dal contesto lavorativo o, comunque, di un intento persecutorio. Sul punto la sentenza di cui in commento espressamente richiama la definizione generale di mobbing dettata da Cass. lav. n. 18093 del 25/07/2013, secondo cui integra la nozione di “mobbing” la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti – giuridici o meramente materiali ed, eventualmente, anche leciti – diretti alla persecuzione o all’emarginazione del dipendente, di cui viene lesa – in violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 c.c. – la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni.

Fatte queste debite premesse, gli Ermellini bocciano il ricorso proposto dal lavoratore che, già in sede di merito, aveva ottenuto il riconoscimento della qualifica superiore – e le conseguenti differenze retributive – dovuta alla dequalificazione professionale subita nel corso degli anni dal datore di lavoro. Tuttavia, nel caso di specie, sono da escludersi comportamenti mobbizzanti datoriali poiché il lavoratore non è riuscito a dimostrare che gli atti di trasferimento e la dequalificazione fossero effettivamente diretti ad una sua perseguitazione o marginalizzazione da parte del datore di lavoro.

Relativamente al sussistenza di un danno da demansionamento, la Corte ha evidenziato come i Giudici del merito avessero correttamente rilevato – dopo aver escluso la sussistenza del mobbing – che “pur trattandosi di pregiudizio in astratto ipotizzabile, nel caso oggetto di commento la mancanza di specifiche allegazioni sul punto, di guisa che, evidentemente, non potevano neppure configurarsi gli estremi di utili presunzioni”. Stante le esposte considerazioni, la Suprema Corte ha quindi rigettato il ricorso promosso dal dipendente.

Articolo tratto dalla Rivista Euroconference “IL GIURISTA DEL LAVORO”