27 Dicembre 2016

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo del dipendente

di Evangelista Basile Scarica in PDF

Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 04 novembre 2016, n. 22476

LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – Giustificato motivo oggettivo – Direttore – Soppressione delle sue mansioni – Sussiste

MASSIMA
Sussiste il licenziamento per giustificato motivo oggettivo del dipendente se a seguito della cessione del ramo di azienda vengono soppresse le sue mansioni.

COMMENTO
Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione è tornata nuovamente sul tema del licenziamento intimato in occasione di un trasferimento d’azienda. Più precisamente, la Corte d’appello aveva rigettato il reclamo del dipendente avverso la sentenza di primo grado, che, in esito a procedimento ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 48 ss., aveva accertato la legittimità del licenziamento intimato allo stesso lavoratore, respingendone quindi l’impugnazione. Avverso la sentenza della Corte Territoriale il lavoratore ha promosso ricorso per Cassazione. Ha resistito la società con controricorso. Con un unico motivo di ricorso il ricorrente ha censurato la sentenza per violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3 e art. 112 c.p.c., sostenendo che il i Giudici di secondo grafo avessero erroneamente individuato la ragione del licenziamento nella soppressione del posto di lavoro anziché nella sua estinzione per estraneità del lavoratore al ramo d’azienda ceduto, in base ad errata ricostruzione dei fatti e distorta valutazione della prova. La Suprema Corte ha dichiarato tali censure infondate. In particolare, gli Ermellini hanno rilevato la sussistenza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento in virtù dell’effettiva estinzione della posizione lavorativa di Direttore Operativo occupata dal dipendente, precisando altresì che il provvedimento espulsivo aveva trovato solamente occasione nel menzionato trasferimento di ramo d’azienda e non la sua diretta e immediata conseguenza. La Suprema Corte ha quindi statuito che la cessione di ramo d’azienda “non può, come tale, costituire ragione giustificativa del licenziamento, a norma dell’art. 2112 c.c., comma 4, non può tuttavia impedire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sempre che esso abbia fondamento nella struttura aziendale”, come avvenuto nel caso di specie, stante l’accertata soppressione delle mansioni assegnate al lavoratore. Esclusa infine la sussistenza di alcun difetto genetico della posizione lavorativa del dipendente in seno alla società cessionaria in epoca anteriore al licenziamento, non avendo egli impugnato l’efficacia nei suoi confronti della cessione del ramo di azienda, la Cassazione ha quindi rigettato il ricorso.

Principali precedenti giurisprudenziali

Conformi

Cass. Civ. 15495 del 2008;

***

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 7 ottobre 2016, n.20218

Licenziamento del lavoratore – Assente per tre giorni senza alcuna comunicazione o autorizzazione – Giustificato motivo oggettivo – Sussiste.

 

MASSIMA
In tema di licenziamento, la valutazione della gravità del fatto in relazione al venir meno del rapporto fiduciario che deve sussistere tra e parti non va operata in astratto, ma con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle singole mansioni, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo (nel caso in esame legittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo a un lavoratore che si è assentato per tre giorni senza avvisare il datore).

COMMENTO
Il Tribunale di Piacenza dichiarava illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore e condannava la Società a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro ed al risarcimento dei danni subiti, pari alle retribuzioni dalla data del recesso sino alla reintegra.

Proponeva impugnazione la società e la Corte d’appello di Bologna, ribaltando la decisione del primo grado, dichiarava legittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo e condannava la società al (solo) pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.

La Corte anzidetta rilevava che la condotta del dipendente – il quale, dopo una lunga assenza per infortunio, si era assentato dal lavoro per tre giorni consecutivi senza avvertire il datore di lavoro della sua impossibilità di rendere la prestazione e di volere usufruire di ferie arretrate – costituiva un inadempimento idoneo a rendere legittimo il licenziamento. Al riguardo dovevano essere valutate, nel giudizio di proporzionalità, effettuato ex art. 2106 c.c., la posizione ricoperta dal dipendente e la sua elevata qualifica nonchè la mancanza di buona fede dimostrata dal medesimo, il quale, assentandosi dal lavoro, aveva reso giustificazioni risultate non vere. Tali circostanze, complessivamente considerate, consentivano di affermare che il recesso fosse sorretto da giustificato motivo soggettivo, con conseguente diritto del dipendente alla indennità sostitutiva del preavviso, pari a sei mensilità.

Per la cassazione di questa sentenza propone ricorso il lavoratore sulla base di un solo motivo.

I Giudici di legittimità, premettendo che risulta incontestata l’assenza ingiustificata dal lavoro per tre giorni consecutivi, osservano che “la giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo del licenziamento costituiscono qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l’uno con effetto immediato e l’altro con preavviso”. Aggiungono a ciò l’assunto, pacifico a livello di pronunce della stessa corte, che la valutazione della gravità del fatto in relazione al venir meno del rapporto fiduciario che deve sussistere tra le parti non va operata in astratto, ma con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle singole mansioni, nonchè alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo. Tutto quanto premesso la Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto dal lavoratore confermando la pronuncia d’Appello che – con valutazione incensurabile in sede di legittimità, adeguatamente motivata e priva di vizi- ha ritenuto che il lavoratore non solo si è assentato dal lavoro senza giustificare l’assenza (notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3), ma ha fornito, al fine di giustificare la sua condotta, giustificazioni risultate non vere, circostanze queste che all’evidenza dimostravano la sua mancanza di buona fede e che erano idonee a ledere irrimediabilmente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, tenuto inoltre conto della sua elevata qualifica e della posizione da lui ricoperta.

Principali precedenti giurisprudenziali

Conformi

Cass. Sez. lav. n. 16283 del 2011;

Cass. Sez. lav. n. 5019 del 2011;

Cass. Sez. lav. n. 35 del 2011:

Cass. Sez. lav. n. 2906 del 2005;

****

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 5 ottobre 2016, n. 19917

LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – Dichiarazioni rese in altro processo – Potenzialmente lesive dell’immagine dell’azienda – Corrispondenti al vero – Reintegra

MASSIMA
Non sussiste il licenziamento per giusta causa nel caso in cui il lavoratore, durante un libero interrogatorio reso durante un altro processo, rilascia affermazioni potenzialmente lesive per la società datrice, ma corrispondenti al vero.

COMMENTO
Con ricorso al Tribunale, il lavoratore ha convenuto in giudizio la società datrice di lavoro, sostenendo l’illegittimità del licenziamento per asserita giusta causa a lui intimato e chiedendo quindi la condanna della società alla reintegra e al risarcimento del danno, ai sensi dell’art. art. 18 L. 20 maggio 1970, n. 300. Nel caso in esame, l’azienda ha irrogato il provvedimento espulsivo, ritenendo ormai irreparabilmente compromesso il vincolo fiduciario, in seguito alla dichiarazione resa dal lavoratore in sede di interrogatorio libero (nel corso di altro giudizio) considerata falsa, lesiva all’immagine della società e in aperta violazione con il dovere dl fedeltà imposto al dipendente dal rapporto di lavoro subordinato. Il Tribunale ha accolto il ricorso e la sentenza favorevole è stata, successivamente, confermata in sede di appello. Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per Cassazione la società, lamentando, con unico motivo, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che aveva formato oggetto di discussione tra le parti. La Suprema Corte si è anzitutto soffermata sul nuovo testo dell’art. 360, primo comma, n. 5, evidenziando, in particolare, che “l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”. Ciò precisato, gli Ermellini, pur dando atto della potenziale lesività, per la società, delle dichiarazioni del dipendente, a maggior ragione in seguito alla dimostrata loro veridicità, hanno ribadito quanto accertato dai Giudici di secondo grado, ovvero che, nel caso di specie, le affermazioni rese dal dipendente non costituivano un atto deliberatamente gratuito, né erano sorrette da un intento denigratorio tale da screditare o da mettere in discussione l’immagine stessa della società, non potendo pertanto “integrare un ipotesi di giusta causa, ossia una circostanza tale da recidere irrimediabilmente il vincolo fiduciario”. A tal proposito, la Cassazione ha quindi sottolineato che il ricorrente non si è curato di confutare tale autonoma ratio decidendi, risultando così l’impugnazione priva dei requisiti di ammissibilità sotto tale profilo. Sulla base di tali considerazioni la Suprema Corte ha confermato la decisione dei giudici di merito e ha rigettato il ricorso.

Principali precedenti giurisprudenziali

Conformi

Cass. Civ. n. 4293 del 2016;

Cass. Civ. n. 4298 del 2015

Articolo tratto dalla Rivista Euroconference “IL GIURISTA DEL LAVORO