11 Aprile 2016

Alle Sezioni Unite il regime di devoluzione in appello delle eccezioni rigettate

di Enrico Picozzi Scarica in PDF


Con l’ordinanza interlocutoria n. 4058, la Seconda sezione ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite, chiamate a chiarire se la parte, totalmente vittoriosa nel merito in primo grado, abbia l’onere di proporre appello incidentale ex art. 343 c.p.c. oppure la riproposizione ex art. 346 c.p.c. al fine di devolvere al giudice del gravame le eccezioni espressamente respinte.

  1. Il caso: Cass., Sez. II, 3 marzo 2016, n. 4058 

La controversa vicenda che ha dato luogo all’ordinanza di rimessione può così riassumersi. Per resistere a un’azione di annullamento del contratto il convenuto eccepiva la prescrizione. Tale eccezione veniva rigettata, anche se il convenuto risultava poi comunque vittorioso nel merito in forza di altre ragioni. Proposto appello principale dell’attore, il convenuto deduceva nuovamente l’eccezione, ma attraverso la semplice riproposizione ex art. 346 c.p.c. anziché mediante formulazione di speicifica impugnazione incidentale avverso la decisione contraria. Le Sezioni Unite sono state chiamate ad esprimersi sulla legittimità o meno di tale mera riproposizione.

 

  1. Alle origini del contrasto: il minimo comun denominatore (Cass., S.U., 16 ottobre 2008, n. 25246) delle divergenti soluzioni giurisprudenziali

Le ragioni della rimessione alle Sezioni Unite vanno ricercate, a parere della Corte, nella circostanza che, mentre talune pronunce (cfr. Cass., sez. I, 26 novembre 2010, n. 24021; Cass., sez. II, 10 marzo 2011, n. 5735; Cass., sez. III, 17 febbraio 2014, n. 3602; Cass., sez. VI, 24 febbraio 2015, n. 3715), in fattispecie analoghe hanno valutato sufficiente la riproposizione dell’eccezione di prescrizione ex art. 346 c.p.c., altre (Cass., sez. lav., 12 giugno 2011, n. 12315; Cass., sez. VI, 30 agosto 2013, n. 19995; Cass., sez. VI, 16 ottobre 2014, n. 21967), al contrario, hanno optato per la soluzione più rigorosa ovverosia quella della proposizione dell’impugnazione incidentale. Ora, l’effettiva comprensione del contrasto giurisprudenziale suggerisce di volgere l’attenzione al fondamentale insegnamento delle Sezioni Unite, del 16 ottobre 2008, n. 25246 (in Giur. it., 2009, 2004 e ss., con nota di Ronco), al quale le discordanti pronunce si richiamano per sorreggere le loro divergenti soluzioni esegetiche.

Il quesito sottoposto alla Corte, in quell’occasione, concerneva la posizione processuale dell’appellato, totalmente vittorioso nel merito, ma soccombente su questione pregiudiziale di rito (giurisdizione), e più precisamente: questi, al fine di devolvere alla cognizione del giudice superiore la questione rispetto alla quale era rimasto soccombente, avrebbe dovuto riproporla o viceversa avrebbe dovuto farla oggetto di apposito gravame incidentale?

Il Supremo Collegio, dopo aver preliminarmente illustrato il significato da attribuire all’anodina espressione «domande ed eccezioni non accolte», optava per l’interposizione del gravame, offrendo inoltre un’ambigua delimitazione applicativa dell’art. 346 c.p.c., in quanto oggetto di riproposizione dovevano essere soltanto:

  1. le domande ed eccezioni autonome assorbite (e sin qui nulla quaestio);
  2. le eccezioni non autonome (non specificandosi se assorbite o rigettate, ma probabilmente la Corte intendeva ricomprendere entrambe le ipotesi) ed interne al capo di domanda deciso.

Ne derivava pertanto che, soltanto le domande e/o eccezioni autonome espressamente rigettate dovevano costituire oggetto di impugnazione incidentale.

Questo criterio orientatore ha favorito, in realtà, lo sviluppo dell’odierno contrasto giurisprudenziale, incentrato principalmente sulla seguente ed angusta quaestio iuris: quale differenza intercorre fra eccezione non autonoma rigettata ed eccezione autonoma rigettata?

 

  1. (segue) Le reali ragioni del contrasto

Una attenta lettura della giurisprudenza citata consente di comprendere l’essenza del contrasto.

Più precisamente, le sentenze che hanno optato per l’applicazione dell’art. 346 c.p.c. hanno considerato applicabile questa disposizione ogniqualvolta il risultato conseguibile in sede di gravame fosse la mera conferma, seppur in base a distinte ragioni, per l’appunto non accolte e/o assorbite nella precedente fase processuale, della pronuncia di primo grado. In questa direzione, si pensi, exempli gratia, al caso deciso con la sentenza n. 24021 del 2010 cit.: proposta un’azione per far dichiarare l’ineleggibilità di un consigliere comunale, questi si difendeva deducendo l’infondatezza della domanda per carenza dei requisiti sostanziali nonché la decadenza dall’azione. Accolta la prima difesa e rigettata la seconda (ovvero quella relativa alla decadenza), la Corte di cassazione reputava sufficiente la riproposizione dell’eccezione disattesa, poiché il suo accoglimento in sede di gravame, non avrebbe determinato una riforma della sentenza, ma soltanto la conferma del decisum, quantunque su altre basi giuridiche.

In altre parole, a fondamento di questo primo approccio esegetico, vi è il convincimento che la riproposizione sarebbe necessaria, quando il rigetto dell’eccezione resti comunque superato dalla vittoria altrimenti conseguita nel merito, e quindi tutte le volte che il rigetto stesso fosse indifferente per la parte che lo subisce (cd. criterio  dell’indifferenza utilitaristica, in argomento v. Tedoldi, L’onere di appello incidentale nel processo civile, in Giur. it., 2001, 1304 nonché 1310). Di conseguenza, l’impugnazione incidentale, sarebbe proponibile esclusivamente in presenza di una soccombenza pratica parziale.

Diversamente, le sentenze che hanno privilegiato il ricorso al gravame incidentale si sono limitate a dar rilievo alla semplice circostanza che una tesi difensiva fosse stata disattesa, disinteressandosi così del risultato conseguibile in sede di impugnazione (foss’anche dunque di mera conferma). In questa direzione, si pensi alla fattispecie decisa da Cass., sez. Lav., 12 giugno 2011, n. 12315: proposto ricorso da parte di un lavoratore per l’accertamento della malattia professionale al fine di ottenere il riconoscimento dell’indennità per invalidità permanente, l’Inail si difendeva deducendo la mancata prova del nesso eziologico e la prescrizione del diritto. Accolta la prima difesa e rigettata la seconda, in fase di gravame la sentenza veniva confermata seppur in base al distinto assunto che fosse maturata la prescrizione al beneficio assicurativo. La cassazione ha annullato con rinvio la pronuncia, poiché l’eccezione di prescrizione era stata devoluta all’esame della corte d’appello in base a semplice riproposizione e non a seguito di impugnazione incidentale.

Di conseguenza, seguendo questo secondo orientamento la proposizione del gravame per incidens si renderebbe necessario ogniqualvolta ricorra una mera situazione di soccombenza, seppur teorica, e dunque anche da parte di chi abbia conseguito l’integrale vittoria nel merito.

 

  1. Considerazioni finali: il requisito della soccombenza quale possibile criterio risolutivo del contrasto

Una corretta impostazione della problematica in esame suggerisce un chiarimento di quelli che sono i presupposti-condizioni del potere di impugnazione e, più in particolare, dei rapporti tra soccombenza ed interesse ad impugnare. A ben vedere, infatti, la prima posizione giurisprudenziale sembra privilegiare una prospettiva esclusivamente teleologico-utilitaristica del gravame, obliterandone del tutto l’aspetto causale-eziologico, cioè la soccombenza. Infatti, se si conviene con l’opinione di chi ha ravvisato la soccombenza in tutti quei casi in cui si realizzi una «divergenza» (secondo il noto linguaggio dell’Attardi, cfr. Id., Sentenze di rito e soccombenza del convenuto, in Giur. it., 1976, I, 1, 494) tra richieste della parte e provvedimento giudiziale – nonché con chi (cfr. Grasso, Le impugnazioni incidentali, Milano, 1973, 51) ha ribadito che questa sussiste «per il solo fatto che la parte vede respinta una sua deduzione [mentre] [v]irtuale è invece il pregiudizio connesso con quella difformità» – si dovrebbe ritenere che il rigetto espresso di una tesi difensiva, pur in presenza di una totale vittoria nel merito e a prescindere dall’ambigua distinzione relativa alla natura autonoma o meno dell’eccezione, giustifichi il ricorso al gravame incidentale.

A questa impostazione, si potrebbe obiettare che la parte totalmente vittoriosa non trae alcun vantaggio dall’interposizione del gravame, poiché mirerebbe alla mera conferma, quantunque in base a distinte ragioni giuridiche, della sentenza di primo grado.

In questa obiezione, forse, si insinua un errore di prospettiva nell’interpretazione del concetto vantaggio: questo, infatti, non va necessariamente declinato in termini di miglioramento della posizione giuridica dell’impugnante, ma può anche tradursi in una mera conservazione dei benefici maturati con la sentenza di primo grado a fronte del pericolo di riforma, insito nella proposizione del gravame principale da parte di chi è  rimasto soccombente nel merito.

L’interpretazione che risolve l’opzione fra riproposizione e impugnazione incidentale sulla base del criterio obiettivo della soccombenza (a prescindere dalla sua natura, sia essa teorica o pratica parziale), relegando pertanto l’operatività dell’art. 346 c.p.c. alle sole ipotesi di rituale assorbimento, evita peraltro alcune gravi incoerenze: si pensi, ad esempio, al caso della parte totalmente vittoriosa che dovrebbe limitarsi a riproporre la questione respinta se risolta con sentenza definitiva, mentre dovrebbe proporre impugnazione se la stessa questione fosse risolta con sentenza non definitiva, con i connessi oneri in tema di specificità dei motivi di impugnazione, ai quali invece si sottrae la riproposizione di cui all’art. 346 c.p.c. (in argomento, cfr. amplius Poli, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, Padova, 2001, 518 e ss.)