3 Maggio 2018

Sull’appellabilità delle sentenze del giudice di pace

di Laura Costantino Scarica in PDF

Cass., sez. VI, ord., 18 gennaio 2018, n. 1210 – Pres. Amendola – Rel. Rubino

[1] Impugnazioni civili – Appellabilità delle sentenze del giudice di pace – Determinazione del valore – Richiesta di condanna a una somma inferiore al limite di cui all’art. 113, co. 2, c.p.c. ovvero alla maggiore somma che risulterà dovuta – Valore corrispondente al limite massimo di competenza del giudice (Cod. proc. civ., artt. 14, 113, co. 2, 339, co. 3)

[1] Nel giudizio innanzi al giudice di pace, qualora sia proposta una domanda di condanna al pagamento di una somma determinata, inferiore al limite di cui all’art. 113, secondo co. 2, c.p.c., ovvero nella somma che risulterà dovuta e comunque entro i limiti della competenza per valore di detto giudice, deve escludersi che la richiesta sia stata contenuta entro il limite per la decisione secondo equità, dovendosi presumere di valore eguale alla competenza per valore del giudice adìto, sicché la sentenza è impugnabile con l’appello, senza dover sottostare ai limiti di cui all’art. 339, co. 3, c.p.c.

CASO

[1] B. conveniva, dinanzi al Giudice di pace, il Comune dell’Aquila, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patrimoniali, causati alla propria vettura per omessa manutenzione del manto stradale, nella misura di euro 919,00, oltre interessi e rivalutazione, e, comunque, entro i limiti di competenza per valore del giudice di pace.

Il giudice di pace, in accoglimento della domanda, condannava il Comune al versamento di euro 700,00 circa.

ll Comune proponeva appello dinanzi al Tribunale, che lo dichiarava inammissibile, per violazione dell’art. 339, co., c.p.c.

A fondamento della decisione il Tribunale rilevava che le sentenze del giudice di pace di valore inferiore a 1.100,00 euro sono appellabili solo per la violazione di norme sul procedimento, di norme costituzionali e comunitarie e per violazione dei principi regolatori della materia, a prescindere dalla decisione della controversia, secondo equità o secondo diritto. Aggiungeva che il riferimento, nelle conclusioni dell’attore, ad ogni maggior somma rispetto a quella domandata, purché entro i limiti di valore del giudice adito fosse inidoneo, per la sua genericità, ad incidere sul valore della causa.

Il Comune proponeva ricorso per cassazione lamentando l’erronea applicazione dell’art. 339, co. 3, c.p.c. da parte del giudice di secondo grado.

SOLUZIONE

[1] La Corte di cassazione accoglie il ricorso, ritenendo che la domanda proposta dall’attore non potesse essere ricondotta entro i limiti di cui all’art. 113, co. 2, c.p.c., e che, pertanto, l’appello non dovesse sottostare ai limiti di cui all’art. 339, co. 3, c.p.c.

A fondamento della decisione, l’ordinanza in epigrafe precisa che, ai fini della determinazione del valore della controversia, promossa avanti il giudice di pace, non debba farsi riferimento esclusivo alla quantificazione operata nella domanda, qualora l’attore abbia richiesto, altresì, la condanna alla somma che risulterà dovuta, entro i limiti di competenza del giudice adito.

QUESTIONI

[1] L’ordinanza in commento ha deciso in modo conforme al prevalente orientamento giurisprudenziale, muovendo da due presupposti fondamentali.

In primo luogo, la Suprema Corte ha precisato che per individuare se una sentenza emessa dal giudice di pace sia o meno appellabile, senza dover sottostare ai limiti di cui all’art. 339, co. 3, c.p.c., occorre far riferimento esclusivamente al valore oggettivo della controversia e non al contenuto della decisione.

Sotto tale profilo, la pronuncia si inserisce nel solco di un consolidato orientamento di legittimità, secondo cui, per determinare il mezzo di impugnazione esperibile avverso le sentenze del giudice di pace, deve aversi riguardo esclusivamente al valore oggettivo della causa, da determinarsi, secondo i princìpi di cui agli artt. 10 e ss. c.p.c., sulla base della domanda proposta, restando irrilevante che il giudice di pace abbia, in concreto, deciso la controversia, secondo diritto ovvero secondo equità (Cass., sez. un., 16 giugno 2006, n. 13917, in Giur. it., 2007, 145, con nota di Maffuccini; Cass., 2 marzo 2007, n. 4890; del pari irrilevante è il valore indicato dall’attore ai fini del pagamento del contributo unificato: in tal senso, Cass., 11 giugno 2012, n. 9432; non assume, inoltre, rilievo la domanda, avanzata in via riconvenzionale, di condanna per lite temeraria ex art. 96 c.p.c., attenendo al regolamento delle spese processuali senza incidere sul valore della controversia: cfr. v. Cass., 4 aprile 2013, n. 8197).

In secondo luogo, la Suprema Corte ha ritenuto che la richiesta di condanna alla maggiore somma che risulterà dovuta e comunque entro i limiti di competenza del giudice adito, impedisca di ricondurre la controversia entro il limite della decisione secondo equità.

Ove sia formulata tale richiesta alternativa, infatti, la domanda si presume, ai sensi dell’art. 14, ult. co., c.p.c., pari al limite massimo della competenza per valore del giudice adito, e, dunque, nella fattispecie, nella misura al di sopra del limite della decisione secondo equità, con conseguente appellabilità della sentenza secondo le regole generali e non nei limiti del citato art. 339, co. 3, c.p.c.

A sostegno dei propri assunti l’ordinanza in commento richiama il consolidato orientamento di legittimità, secondo il quale ove l’attore integri e completi una richiesta specificamente quantificata nel suo ammontare, con una ulteriore sollecitazione rivolta al giudice a determinare il dovuto «in quella somma maggiore o minore che verrà ritenuta di giustizia», questa seconda indicazione ha un contenuto sostanziale, non rilevando che nella prassi corrisponda ad una clausola che può essere definita «di stile» (in senso conforme, Cass., 17 aprile 2007, n. 9138; Cass. 11 giugno 2012, n. 9432; Cass., 11 marzo 2013, n. 6053, in Dir. giust., 2013, 299, con nota di Terlizzi).

La formula in questione, secondo la Suprema Corte, manifesta la ragionevole incertezza della parte sull’ammontare del danno effettivamente da liquidarsi ed ha lo scopo di consentire al giudice di provvedere alla giusta liquidazione, senza essere vincolato all’ammontare della somma determinata che venga indicata nelle conclusioni specifiche.

Da ciò discende che la suddetta richiesta alternativa si risolve in una mancanza di indicazione della somma domandata, con la conseguenza che la domanda, ai sensi dell’art. 14 c.p.c., si deve presumere di valore eguale alla competenza del giudice adito (in senso parzialmente difforme: Cass. 30 marzo 2011, n. 725; Cass., 29 novembre 2010, n. 24153, secondo cui la clausola «maggiore o minore somma accertata e ritenuta più giusta ed equa» non può ritenersi di per sé sufficiente a dimostrare la volontà di chiedere una somma maggiore, essendo necessario effettuare una valutazione in concreto, in riferimento alla presenza di ulteriori indici interpretativi, idonei ad ingenerare quantomeno il dubbio che le circostanze dedotte siano potenzialmente idonee a superare il valore espressamente menzionato).

Da ultimo, la Suprema Corte, richiamando un altro precedente in termini, precisa che alle medesime conclusioni debba pervenirsi anche qualora l’attore, in sede di precisazioni delle conclusioni, contenga la domanda entro i limiti di cui all’art. 113, co. 2, c.p.c., dovendosi far riferimento al momento della domanda ai fini dell’individuazione della competenza e della determinazione del valore della controversia (Cass., 4 ottobre 2013 n. 22759; sulla rilevanza esclusiva della domanda per la determinazione del valore della controversia, ai fini della competenza, v. Luiso, Diritto processuale civile, I, Milano, 2015, 95 ss.).

Per completezza, si dà conto della modifica legislativa all’art. 113, co. 2, c.p.c., intervenuta ad opera del d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116, con entrata in vigore dal 31 ottobre 2021, che ha innalzato ad euro duemilacinquecento il limite di valore delle controversie nelle quali il giudice di pace decide secondo equità. La nuova formulazione sarà la seguente: «il giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non eccede duemilacinquecento euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’art. 1342 del codice civile».