21 Gennaio 2020

Paziente danneggiata da dosi eccessive di irradiazione della terapia radiante e risarcimento del danno da mancato consenso informato

di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., Sez. III, 11 novembre 2019, n. 28985, sent. – Pres. Travaglino – Rel. Olivieri

Responsabilità civile – Violazione dell’obbligo di informazione da parte del medico – Conseguenze dannose – Lesione dei diritti della salute e all’autodeterminazione – Configurabilità – Condizioni.

[1] La violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento (per non subirne le conseguenze invalidanti); un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subìto un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale diverso dalla lesione del diritto alla salute.

CASO

[1] Una paziente ed il marito citavano avanti al Tribunale di Bari un Istituto Oncologico, onde ottenerne la condanna al risarcimento dei danni dalla stessa subìti (mielopatia dorsale da radioterapia che la conduceva al decesso), causati da elevate dosi di irradiazioni della terapia radiante, cui la paziente era stata sottoposta, senza essere informata delle relative conseguenze, per curare un “linfogranuloma di Hodgking” da cui era affetta.

Il Giudice di prime cure rigettava la domanda, in quanto:

– all’epoca dei fatti (1989) la mielopatia traversa non rientrava tra le conoscenze scientifiche dei rischi derivanti dalla radioterapia;

– i medici che avevano eseguito la terapia avevano prudentemente osservato i protocolli di cura dell’epoca.

La Corte d’appello, riformando la sentenza di primo grado, accertava la responsabilità dell’Istituto dei Tumori, in quanto la mielopatia dorsale, per quanto rara, era un rischio già segnalato dalla dottrina scientifica dell’epoca ed in quanto i miglioramenti conseguiti dalla paziente, a seguito della pregressa chemioterapia, non giustificavano le massicce dosi di irradiazioni cui era stata sottoposta, che davano luogo all’esito infausto.

L’Istituto Oncologico proponeva ricorso in Cassazione, il quale veniva tuttavia rigettato.

SOLUZIONE

[1] La Suprema Corte con la sentenza in commento ha affermato una serie di principi, tra cui il seguente:

La manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio di un autonomo diritto soggettivo alla autodeterminazione, proprio della persona fisica (la quale in piena libertà e consapevolezza sceglie di sottoporsi a terapie farmacologiche o ad esami clinici e strumentali o ad interventi e trattamenti anche invasivi, laddove comportino costrizioni o lesioni fisiche ovvero alterazioni di natura psichica, in funzione della cura o della eliminazione di uno stato patologico preesistente o per prevenire una prevedibile patologia o un aggravamento della patologia futuri) che, sia pure connesso, deve essere, tuttavia, tenuto distinto sul piano del contenuto sostanziale, dal diritto alla salute, ossia del diritto del soggetto alla propria integrità psico-fisica”.

QUESTIONI

[1] La sentenza in commento – depositata (insieme con altre nove della medesima Sezione terza e tutte relative alla responsabilità medico-sanitaria) nel giorno di San Martino e, dunque, nell’undicesimo anniversario delle pronunce “gemelle” rese a Sezioni Unite nn. 26972-26975/2008 in tema di danno non patrimoniale – segna un punto di approdo nell’elaborazione giurisprudenziale costruita, nell’ultimo decennio, in tema di consenso informato e violazione della libertà di autodeterminazione del paziente.

La pronuncia ribadisce che la violazione dell’obbligo informativo da parte del medico può determinare la lesione di due distinti diritti: quello all’autodeterminazione e quello alla salute del soggetto danneggiato, i quali trovano fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione e negli artt. 1, 2, 3 e 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Si esamineranno, di seguito, gli aspetti più rilevanti della pronuncia in esame.

Con il primo motivo di ricorso, l’Istituto ricorrente lamentava la violazione degli artt. 1176 c.c., 2236 c.c. e 2043 c.c., avendo la Corte territoriale dichiarato la responsabilità dei sanitari dell’Istituto, sebbene essi si fossero attenuti ai protocolli terapeutici dell’epoca, dovendosi ravvisare, nella specie, la particolare difficoltà tecnica della prestazione.

La Suprema Corte, condividendo le conclusioni dei Giudici di secondo grado, osserva che l’Istituto Oncologico non aveva fornito la prova liberatoria di cui all’art. 1218 c.c. e che, anzi, sussisteva prova della colpa professionale dei sanitari, per violazione del dovere di prudenza, che avrebbe imposto nel caso de quo un dosaggio di irradiazione inferiore, tenuto conto delle condizioni di salute della paziente.

Al riguardo, con la sentenza in commento, i Giudici di legittimità colgono l’occasione per precisare che nel giudizio di responsabilità medica, per superare la presunzione posta a suo carico dall’art. 1218 c.c. non è sufficiente per il medico dimostrare che l’evento dannoso per il paziente rientri nel novero di quelle che nel lessico clinico vengono denominate “complicanze” (intese nella letteratura medica quali eventi, insorti nell’ambito dell’iter terapeutico, in astratto prevedibili ma non evitabili), giacché tale concetto è privo di rilievo sul piano giuridico, dove il peggioramento delle condizioni di salute del paziente o si riconduce ad un fatto prevedibile ed evitabile,  e quindi ascrivibile a colpa del medico, ovvero si riconduce ad un fatto non prevedibile o non evitabile, tale da integrare la causa non imputabile (Cass. civ., 30.06.2015, n. 13328),

Per liberarsi da responsabilità, la struttura sanitaria è chiamata a provare la non imputabilità per colpa dell’inadempimento o dimostrando di avere correttamente eseguito la prestazione o indicando che l’evento sopravvenuto non era in ogni caso prevedibile ed evitabile con la dovuta diligenza.

Secondo gli Ermellini, correttamente la Corte territoriale aveva affermato che la complicanza di “mielopatia dorsale”, sebbene rara, non era imprevedibile, in quanto già nota e segnalata come possibile rischio dagli studi scientifici in essere all’epoca dei fatti (1989).

Inoltre, correttamente i Giudici di secondo grado avevano ritenuto colpevole la condotta dei sanitari giacché costituiva violazione della generale regola di prudenza somministrare eccessive dosi di terapia radiante, in mancanza di una valida giustificazione e tenuto conto dei miglioramenti dello stato di salute della paziente, a seguito delle pregresse cure chemioterapiche.

Con il secondo motivo, l’Istituto ricorrente deduceva che le norme della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e la Convenzione Europea sui diritti dell’uomo e della biomedicina di Oviedo, che nei rapporti medico-paziente prescrivono la necessità del preventivo consenso informato rilasciato dal paziente, erano successive ai fatti di causa (avvenuti nel 1989) e che, pertanto, l’omessa acquisizione del consenso informato del paziente nella fattispecie non poteva integrare inadempimento contrattuale della struttura sanitaria.

Deduceva inoltre l’Istituto che, essendo all’epoca dei fatti ignorata la “complicanza” del mieloma, non sussisteva nesso causale tra la carenza del consenso e l’evento lesivo.

Sul punto la Suprema Corte afferma che nell’ambito dell’attività medico-chirurgica, la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli, che, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2,13 e 32, comma 2, Cost.; pertanto, la circostanza che esso abbia trovato espressa previsione nelle fonti eurounitarie ed internazionali (art. 3, comma 1, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e art. 5 Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina) solo successivamente al trattamento terapeutico praticato (nella specie, risalente al 1989) non può essere invocata per sostenere l’inesistenza, in epoca antecedente, dello specifico obbligo del medico di informare correttamente il paziente della tipologia e modalità delle cure, dei benefici conseguibili, dei possibili effetti indesiderati e del rischio di complicanze anche peggiorative dello stato di salute.

La Suprema Corte evidenzia che le norme comunitarie ed internazionali richiamate dal ricorrente “non hanno fatto altro che recepire quello che era già considerato un dovere informativo oggetto della obbligazione assunta dal medico verso il paziente con il rapporto di assistenza sanitaria.

Deve ritenersi, infatti, ormai definitivamente acquisito nella giurisprudenza di legittimità che la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio di un autonomo diritto soggettivo all’autodeterminazione proprio della persona fisica (la quale in piena libertà e consapevolezza sceglie di sottoporsi a terapia farmacologica o a esami clinici e strumentali, o ad interventi o trattamenti anche invasivi, laddove comportino costrizioni o lesioni fisiche ovvero alterazioni di natura psichica, in funzione della cura e della eliminazione di uno stato patologico preesistente o per prevenire una prevedibile patologia od un aggravamento della patologia futuri), che – pur se connesso – deve essere tuttavia nettamente distinto – sul piano del contenuto sostanziale – dal diritto alla salute, ossia dal diritto del soggetto alla propria integrità psico-fisica”.

A tali diritti del paziente corrisponde il dovere di informativa del sanitario (è ininfluente che tale obbligo sia ricondotto all’interno della prestazione di natura contrattuale o extracontrattuale), ovvero il dovere di fornire al paziente informazioni dettagliate sul trattamento sanitario, sulle sue probabilità di successo, sui possibili rischi correlati al trattamento nonché la probabilità del loro verificarsi e di essere risolti.

Tale obbligo informativo ha trovato definitivo inquadramento, come obbligo ex lege, nella legge 22.12.2017, n. 219 art. 1, commi 3-6, art. 3, commi 1-5 e art. 5, che prescrivono che: “ogni persona ha diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”.

Con riferimento alla censura riguardante la carenza del nesso eziologico tra mancanza del consenso informato e danno alla salute, secondo la Suprema Corte è “inammissibile per carenza di interesse, in quanto l’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo informativo non riveste, nella fattispecie, rilievo causale determinante nella produzione del “danno biologico”, né di alcun altro danno di qualsiasi natura”.

La Corte territoriale, infatti, pur avendo affermato che il peggioramento dello stato di salute della paziente doveva ritenersi “danno-conseguenza pure di tale violazione (omessa acquisizione del consenso) e comporta il riconoscimento del diritto degli attori-appellanti al risarcimento invocato“, non aveva poi riconosciuto e risarcito alcun danno ulteriore per la “lesione della libertà di autodeterminazione”, ma aveva solo ritenuto che la condotta di omessa informativa, in quanto integrante inadempimento contrattuale, si innestava come “antecedente causale concorrente” nella sequenza eziologica produttiva del danno alla salute.

Secondo la Cassazione, correttamente la Corte territoriale aveva imputato ai sanitari la colpa per omessa informativa, non solo in relazione al rischio di mielopatia dorsale trasversa (che il ricorrente asseriva non essere al tempo conosciuta come complicanza della radioterapia), bensì, in generale, con riferimento ad una serie di altri elementi rilevanti ai fini di una scelta consapevole della paziente: i medici, cioè, non avevano fornito alcuna informazione sulla “tipologia dei cicli terapeutici“, sui “possibili effetti iatrogeni all’epoca conosciuti“, sulla individuazione della “giusta dose“, sulla “illustrazione dei rischi e benefici” inerenti alle diverse opzioni.

Quanto alle doglianze dell’Istituto oncologico, che attribuiva alla Corte d’Appello di aver identificato il mancato consenso quale causa del danno biologico che aveva subìto ed afflitto la paziente, conducendola al decesso, la sentenza in commento evidenzia che i Giudici di seconde cure non avevano, semplicisticamente, messo in rapporto di causa-effetto l’omesso consenso con il danno alla salute, ma avevano correttamente dedotto che la paziente, se correttamente, informata, non si sarebbe sottoposta al trattamento terapeutico.

Secondo la Corte, cioè, elemento “costitutivo” del nesso eziologico ex art. 1223 c.c. tra la omessa informazione e le conseguenze pregiudizievoli allegate (tanto se peculiari alla sola lesione della autodeterminazione, quanto se riferite al solo danno biologico), è la scelta che avrebbe compiuto il paziente, se correttamente informato.

A questo punto della motivazione, la Suprema Corte ripercorre e chiarisce l’elaborazione giurisprudenziale che la stessa Corte di legittimità ha svolto, nell’ultimo decennio, in tema di consenso informato relativo alla somministrazione delle cure mediche e farmacologiche e della violazione della libertà di autodeterminazione del paziente, arrivando alla formulazione, al punto 2.5 della motivazione, di una serie di enunciati, che si ritiene di trascrivere.

La violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni:

  1. un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente – sul quale grava il relativo onere probatorio – se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento (onde non subirne le conseguenze invalidanti);
  2. un danno da lesione del diritto alla autodeterminazione, predicabile se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute”.

Pertanto, la Suprema Corte passa in rassegna tutte le possibili situazioni conseguenti ad un’omessa od insufficiente informazione, tenuto conto della rilevanza plurioffensiva della condotta di omessa informazione.

  1. Omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi, nelle medesime condizioni, “hic et nunc”: in tal caso, il risarcimento sarà limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente, morale e relazionale.
  2. Omessa/insufficiente informazione in relazione a un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente.
  3. Omessa informazione in relazione a un intervento che ha cagionato un danno alla salute (inteso anche nel senso di un aggravamento delle condizioni preesistenti) a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento, sarà liquidato con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute – da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l’intervento non sarebbe stato eseguito – andrà valutata in relazione alla eventuale situazione “differenzialetra il maggiore danno biologico conseguente all’intervento ed il preesistente stato patologico invalidante del soggetto.
  4. Omessa informazione in relazione a un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, cui egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi: in tal caso, nessun risarcimento sarà dovuto.
  5. Omissione/inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, ma che gli ha tuttavia impedito di accedere a più accurati ed attendibili accertamenti(come nel caso del tri-test eseguito su di una partoriente, senza alcuna indicazione circa la sua scarsa attendibilità e senza alcuna, ulteriore indicazione circa l’esistenza di test assai più attendibili, quali l’amniocentesi, la villocentesi, la translucenza nucale): in tal caso, il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, alla autodeterminazione sarà risarcibile qualora il paziente alleghi che, dall’omessa, inadeguata o insufficiente informazione, gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente – salva possibilità di provata contestazione della controparte.

Vi è poi un ulteriore passaggio nella parte finale della motivazione al punto 2.5, che merita di soffermarvisi.

Nel caso in cui sia possibile ottenere il risarcimento del danno, cosa deve essere provato e chi deve provarlo?

Secondo la Cassazione  “il risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, pur necessario ed anche se eseguito “secundum legem artis”, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, dovrà conseguire alla allegazione del relativo pregiudizio ad opera del paziente, riverberando il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c.c., e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione – perfezionatosi con la condotta omissiva violativo dell’obbligo informativo preventivo – e conseguenze pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale.

Il paziente che alleghi l’altrui inadempimento sarà dunque onerato della prova del nesso causale tra inadempimento e danno, posto che:

  1. il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico;
  2. il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta soggettiva del paziente, sicché la distribuzione del relativo onere va individuato in base al criterio della cd. “vicinanza della prova; (n.d.r. per cui, a fronte di una indicazione terapeutica necessaria, è il paziente che deve dimostrare che non avrebbe voluto sottoporsi alla cura).
  3. il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di necessità/opportunità dell’intervento operata dal medico costituisce eventualità non corrispondente all’”id quod plerumque accidit”.

Tale prova potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza, le presunzioni, queste ultime fondate, in un rapporto di proporzionalità diretta, sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell’operazione, “non potendosi configurare, “ipso facto”, un danno risarcibile con riferimento alla sola omessa informazione, attesa l’impredicabilità di danni “in re ipsa” nell’attuale sistema della responsabilità civile”.

Sembrerebbe, quindi, che in caso di un intervento eseguito “secundum legem artis”, e senza una valida acquisizione del consenso informato, al fine di ottenere il risarcimento dei danni derivanti da lesione del diritto all’autodeterminazione, sia sempre necessario che l’interessato provi che avrebbe scelto diversamente, non essendo altrimenti prospettabile una perdita ex art. 1223 c.c.

Se così fosse la sentenza in commento avrebbe una portata decisamente innovatrice, se si considera che le precedenti sentenze della Corte di legittimità affermavano che l’anzidetta prova (cioè che il paziente non si sarebbe sottoposto al trattamento, anche se correttamente eseguito, se fosse stato reso edotto dei rischi) sarebbe necessaria solo laddove venga chiesto il risarcimento del pregiudizio alla salute e non ove si faccia valere un danno diverso (patrimoniale e non) quale conseguenza della lesione del diritto all’autodeterminazione.