2 Novembre 2016

Il licenziamento disciplinare: accertamento della sussistenza del fatto materiale

di Giuseppina Mortillaro Scarica in PDF

Il fatto materiale sussistente, ma privo del connato dell’illiceità equivale al fatto insussistente e dà luogo a reintegrazione: nota a Cass. civ., sez. lav., 20 settembre 2016, n. 18418

Licenziamento disciplinare intimato dopo l’entrata in vigore della l. n. 92/2012 – Accertamento della sussistenza del fatto materiale – Assenza del requisito dell’antigiuridicità del fatto – Diritto alla tutela reintegratoria – Sussiste

  1. Il caso portato all’attenzione della Corte di Cassazione 

La Corte di Cassazione è stata chiamata a decidere sul ricorso proposto dalla società datrice di lavoro per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Brescia che, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Brescia, aveva accolto la domanda di accertamento dell’illegittimità del licenziamento proposta dal lavoratore per insussistenza di giusta causa, con riconoscimento della tutela di cui al co. 4 dell’art. 18 St. lav., e detrazione dell’aliunde perceptum.

La società datrice di lavoro, nel proporre ricorso per Cassazione, sosteneva che l’istruttoria svolta aveva dato conferma del comportamento offensivo tenuto dal lavoratore nei confronti degli altri colleghi che invece avrebbe dovuto formare e, inoltre, la situazione venutasi a determinare aveva indotto l’azienda a chiedere al lavoratore, che avrebbe dovuto cessare la sua attività di formatore, di ridiscutere i superminimo individuale. Richiesta rispetto alla quale il lavoratore si era rifiutato, accusando di vessazioni e di demansionamento l’azienda. Motivo per cui quest’ultima, ritenuto il venir meno del rapporto di fiducia, aveva intimato il licenziamento per giusta causa. Dal che la società ricorrente faceva discendere, in tesi, la piena legittimità del provvedimento espulsivo e, in ipotesi, la non riconducibilità della fattispecie concreta nel co. 4 dell’art. 18, trattandosi a tutto concedere di mero difetto di proporzionalità riconducibile al co. 5 della norma.

  1. La decisione della Corte di Cassazione 

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondate le censure mosse dalla datrice di lavoro e ciò sul presupposto che venisse in rilievo non già una questione di difetto di proporzionalità del licenziamento (difetto che, ove accertato, avrebbe dato luogo alla tutela meramente indennitaria), ma quella ben diversa di difetto di antigiuridicità del fatto.

Ha sostenuto la Corte, richiamando Cass. civ., sez. lav., 13 ottobre 2015, n. 20540, che la nozione di insussistenza del fatto contestato non soltanto comprende le ipotesi di fatto materiale inesistente, ma anche quelle di fatto materiale effettivamente posto in essere, ma privo del carattere dell’antigiuridicità. Secondo la Corte “l’assenza di illiceità di un fatto materiale pur sussistente, deve essere ricondotto all’ipotesi, che prevede la reintegra nel posto di lavoro, dell’insussistenza del fatto contestato, mentre la minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità, non consente l’applicazione della tutela cd. Reale”. E aggiunge: “non può ritenersi relegato al campo del giudizio di proporzionalità qualunque fatto (accertato) teoricamente censurabile ma in concreto privo del requisito di antigiuridicità, non potendo ammettersi che per tale via possa essere sempre soggetto alla sola tutela indennitaria un licenziamento basato su fatti (pur sussistenti, ma) di rilievo disciplinare sostanzialmente inapprezzabile”.

  1. I precedenti giurisprudenziali 

L’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione è quello che appare maggiormente in linea con la previsione testuale dello stesso art. 18 St. lav. E, infatti, la norma prevede la tutela reintegratoria non soltanto nelle ipotesi di insussistenza del fatto contestato, ma anche in quelle in relazione alle quali il fatto contestato rientri “tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”.

Ebbene. Se si accedesse alla tesi secondo cui la sussistenza del fatto materiale prescinde dalla valutazione di antigiuridicità dello stesso, si finirebbe per dovere ammettere che il Legislatore abbia intesto tutelare maggiormente il lavoratore che commette un fatto disciplinarmente rilevante (anche molto grave: si pensi ai casi che possono dar luogo alla sospensione massima), ma punito dai contratti collettivi o dai codici disciplinari con una sanzione conservativa, rispetto a quel lavoratore che pone in essere una condotta materiale che non abbia alcun rilievo disciplinare e dunque sia priva dei connotati dell’antigiuridicità. È perciò lo stesso art. 18 St. lav. che fa propendere per la tesi del fatto come fatto antigiuridico.

La pronuncia della Corte di Cassazione circa la necessaria antigiuridicità del fatto si pone in linea con la giurisprudenza maggioritaria di merito formatasi sul punto.

Si richiamano in tal senso, tra le tante, Trib. Bologna, 15 ottobre 2012: “la fattispecie inerente la c.d. insussistenza del fatto contestato va interpretata come fatto giuridico, inteso come fatto globalmente accertato, nell’unicum della sua componente oggettiva e della sua componente inerente l’elemento soggettivo”. D’altra parte “l’insussistenza” non può essere letta come se facesse riferimento solo al fatto materiale, posto che “tale interpretazione sarebbe palesemente in violazione dei principi dell’ordinamento civilistico, relativi alla diligenza e alla buona fede nell’esecuzione del rapporto lavorativo, posto che potrebbe giungere a ritenere applicabile la sanzione del licenziamento indennizzato anche a comportamenti esistenti sotto l’aspetto materiale e oggettivo, ma privi dell’elemento psicologico, o addirittura, privi dell’elemento della coscienza e volontà dell’azione”. Trib. Milano, 15 novembre 2015: “il «fatto» manifestamente insussistente non è il mero fatto materiale, bensì il fatto disciplinarmente rilevante”. Trib. Bari, 19 novembre 2013: “in tema di licenziamento per giusta causa, sul piano probatorio, premesso che l’elemento soggettivo è necessaria parte di ogni atto umano, se per l’integrazione dei fatti giuridicamente legittimanti il licenziamento è necessario il dolo, l’onere datoriale di provare la sussistenza dei fatti si estende alla prova del dolo e, pertanto, ai fini della legittimità del licenziamento, la prova della sussistenza del fatto nella sua materialità è insufficiente”. Trib. Ravenna, 18 marzo 2013: “si osserva in proposito come la nozione di fatto valevole ai fini della scelta della sanzione non può che comprendere tutto il fatto nella pienezza dei suoi elementi costitutivi (sia l’elemento oggettivo sia l’elemento soggettivo) alla luce della nozione di giusta causa valevole nella fattispecie considerata (secondo la legge ed il CCNL). E per fatto occorre intendere quello costituente illecito disciplinare (integrante giusta causa) alla luce della fattispecie concreta (che si giudica in base alla contestazione)…Ai fini della scelta della tutela (reale o indennitaria) nel licenziamento disciplinare il giudice non può guardare invece soltanto al mero fatto ipotizzato e contestato dal datore; ma deve guardare allo stesso fatto in relazione alla nozione di giusta causa; ed in ipotesi di sussistenza di un fatto che non abbia rilevanza come giusta causa egli non potrà che concedere la reintegra, al pari del caso in cui il fatto materiale non sussiste”. Trib. Genova, 24 marzo 2015: “la locuzione “insussistenza del fatto contestato” dell’art. 18, 4° comma, L. n. 300/1970 (nel testo introdotto dalla L. n. 92/2012) va interpretata come riferentesi a “fatto giuridico” in quanto si ritiene che il legislatore non abbia inteso negare la tutela più piena nei casi in cui le condotte addebitate disciplinarmente si fossero rivelate connotate da elementi (cause di giustificazioni, circostanze attenuanti, imputabilità) tali da renderle prive di qualsiasi offensività per il datore di lavoro o addirittura non riferibili alla sfera soggettiva del lavoratore; alle conseguenze opposte si giungerebbe infatti qualora si ritenesse che il “fatto contestato” vada identificato col comportamento nella sua materialità, a prescindere dalle componenti che ne configurano non solo la gravità, ma, prima ancora, l’antigiuridicità”.

  1. Cosa cambia dopo il jobs act?

L’art. 3, co. 2, del d.lgs. n. 23/2015 ha stabilito che la reintegrazione può essere disposta dal Giudice solo nei casi in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento.

Tralasciando la questione del cosa voglia dire “direttamente dimostrata in giudizio”, si pone il problema di comprendere se la nozione di fatto materiale sia la medesima di quella contenuta nell’art. 18 St. lav. o se si intenda qualcosa di diverso.

In attesa di conoscere quelli che saranno gli orientamenti della giurisprudenza, sembra potersi ragionevolmente affermare che, con fatto materiale, debba continuare a intendersi il fatto antigiuridico, e dunque il fatto disciplinarmente rilevante.

La vera novità contenuta nell’art. 3, co. 2, del d.lgs. n. 23/2015 sta, invece, nel non avere previsto la tutela reintegratoria per i fatti punibili con una sanzione conservativa dai contratti collettivi o dai codici disciplinari. Laddove, perciò, il licenziamento sia comminato per fatti punibili con la sanzione conservativa non potrà essere disposta la reintegrazione, dovendosi applicare la mera tutela indennitaria.

D’altra parte i fatti punibili con la sanzione conservativa sono comunque fatti disciplinarmente rilevanti, rispetto ai quali può venire in rilievo un profilo di difetto di proporzionalità, la cui valutazione, però, è stata espressamente esclusa ai fini della sussistenza del fatto.