9 Novembre 2021

Le Sezioni Unite definiscono il termine per la riassunzione del processo interrotto dalla dichiarazione di fallimento

di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., sez. un., 7 maggio 2021, n. 12154 – Pres. Spirito – Rel. Ferro

Parole chiave: Fallimento – Effetti – Rapporti processuali – Interruzione del processo – Automaticità – Riassunzione o prosecuzione del processo – Decorrenza del termine dalla dichiarazione giudiziale di interruzione

[1] Massima: In caso di apertura del fallimento, ferma restando l’automatica interruzione del processo (avente per oggetto i rapporti di diritto patrimoniale del fallito) che ne deriva ai sensi dell’art. 43, comma 3, l.fall., il termine per la riassunzione o la prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all’art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi degli artt. 52 e 93 l.fall. per le domande di credito, decorre da quando la dichiarazione giudiziale dell’interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, ove non già conosciuta nei casi di pronuncia in udienza ai sensi dell’art. 176, comma 2, c.p.c., va notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato, ovvero comunicata dall’ufficio giudiziario, potendo altresì il giudice pronunciarla d’ufficio, allorché gli risulti, in qualunque modo, l’avvenuta dichiarazione di fallimento.

Disposizioni applicate: cod. proc. civ., artt. 300, 305; r.d. 267/1942, artt. 43, 92, 93, 94

CASO

Una banca veniva convenuta in giudizio per la restituzione delle somme indebitamente versatele per interessi usurari e anatocistici.

Avverso la pronuncia di accoglimento della domanda, la banca proponeva appello; nel corso del giudizio di secondo grado, tuttavia, sopravveniva il fallimento (dichiarato con sentenza del 16 aprile 2014) della società che aveva promosso il giudizio, sicché il processo veniva dichiarato interrotto con provvedimento reso all’udienza celebratasi il 9 dicembre 2014.

La banca procedeva alla riassunzione con ricorso depositato il 29 aprile 2015 e notificato il 25 giugno 2015, ma la curatela ne eccepiva la tardività, rilevando che la banca aveva ricevuto, in data 3 maggio 2014, la comunicazione prescritta dall’art. 92 l.fall. e presentato domanda di ammissione al passivo il 10 giugno 2014, dimostrando di avere piena conoscenza dell’intervenuto fallimento.

La Corte d’Appello reputava fondata l’eccezione e dichiarava estinto il giudizio.

La banca ricorreva, quindi, per cassazione, contestando l’erronea individuazione del dies a quo di decorrenza del termine per la riassunzione del processo stabilito dall’art. 305 c.p.c.

SOLUZIONE

[1] Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, investite della questione concernente l’individuazione del momento a partire dal quale deve farsi decorrere il termine per riassumere il processo interrotto ai sensi dell’art. 43, comma 3, l.fall., hanno accolto il ricorso, affermando che, per verificare la tempestività o meno della riassunzione o della prosecuzione del giudizio, deve aversi riguardo alla dichiarazione giudiziale di interruzione che sia stata resa nota a ciascuna parte con modalità tali da assicurarne l’effettiva conoscenza, non potendosi, da un lato, istituire, rispetto alla mera declaratoria di fallimento, alcun automatismo (che riguarda solo ed esclusivamente l’effetto interruttivo, che si produce ope legis) e, dall’altro lato, elevare a fonte di cognizione fatti e circostanze – pure in quale modo riconducibili alla procedura concorsuale e al suo fisiologico sviluppo – che non presentano un diretto e inequivoco collegamento con il giudizio di cui è parte il fallito.

QUESTIONI

[1] Nell’edizione del 9 febbraio 2021, veniva dato conto della rimessione alle Sezioni Unite della questione inerente all’esatta e univoca individuazione del momento da cui deve farsi decorrere il termine per la riassunzione del processo interrotto ai sensi dell’art. 43, comma 3, l.fall.

Con la sentenza che si annota, i giudici di legittimità, nella loro composizione più autorevole, hanno affermato il principio di diritto riportato in massima, dopo avere operato un’attenta e puntuale ricostruzione del quadro normativo di riferimento e dei principi – anche di matrice comunitaria – che mirano a tutelare il diritto di difesa e ad assicurare l’effettività del contraddittorio.

Attraverso la modifica della disposizione recata dal citato art. 43, comma 3, l.fall., il legislatore ha inteso accelerare le procedure applicabili alle controversie in materia fallimentare, stabilendo che l’apertura del fallimento determina l’interruzione automatica del processo, onde evitare che essa intervenga a distanza di tempo, secondo il meccanismo delineato dall’art. 300 c.p.c., che la colloca in contestualità con la dichiarazione con cui il procuratore costituito informa il giudice del fatto che si è verificato l’evento interruttivo.

In ragione di tale automaticità, il fallimento di una parte processuale non può farsi rientrare del tutto nell’ambito applicativo dell’art. 300 c.p.c., sebbene l’assenza – nel corpus della legge fallimentare – di altre regole specifiche sull’interruzione imponga comunque di fare riferimento alla disciplina generale processualcivilistica per colmare le lacune normative.

Nel contempo, la dichiarazione giudiziale di interruzione del processo per fallimento di una parte ha natura meramente dichiarativa e ricognitiva (e non già costitutiva), al punto che la sua eventuale omessa pronuncia non ha alcuna conseguenza sugli effetti che, nel frattempo, si sono già prodotti ex lege sul giudizio che vede coinvolta la parte fallita; ciononostante, la sua idoneità a costituire strumento legale di conoscenza dell’evento interruttivo in modo certo e generale ben si presta, secondo i giudici di legittimità, a farla assurgere a punto di riferimento per l’individuazione del dies a quo per la decorrenza del termine per la riassunzione o la prosecuzione del processo, tanto per la parte non interessata dalla dichiarazione di fallimento, quanto per il curatore.

Per questa via, viene a coincidere il modo in cui tutti i soggetti interessati (il curatore e le parti non colpite dal fallimento) hanno – in maniera certa e in forma legale – notizia della causa interruttiva, senza che vi sia bisogno di ricorrere all’individuazione di altri strumenti di conoscenza che, pur potendo essere considerati sintomatici della presumibile consapevolezza dell’intervenuto fallimento, non garantiscono con altrettanta certezza la sua chiara e univoca riferibilità al processo colpito dall’interruzione.

In quest’ottica, quindi, l’acquisita conoscenza in forma legale dell’evento interruttivo (che pure produce effetti automatici sul processo) rappresenta l’elemento cui ancorare il dies a quo per la decorrenza del termine per la riassunzione o per la prosecuzione del processo, in continuità con i principi che la giurisprudenza costituzionale ha affermato nel momento in cui è stata chiamata a sindacare la legittimità delle norme che disciplinano detti istituti.

D’altra parte, l’analisi degli orientamenti che attribuivano dignità a forme diverse di conoscenza di fatto mostrava una disomogeneità che rendeva oltremodo necessario fissare delle coordinate univoche.

Infatti, secondo un primo indirizzo, che faceva leva sulla necessità di un atto (dichiarazione, notificazione o certificazione) che rendesse documentabile la conoscenza legale (non essendo sufficiente quella acquisita aliunde), aveva individuato tale evento, alternativamente, nella dichiarazione del procuratore della parte fallita in udienza ai sensi dell’art. 300 c.p.c., nella notifica al procuratore costituito ex art. 170 c.p.c. e nella certificazione compiuta dall’ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione di uno degli atti previsti dall’art. 292 c.p.c.

Secondo altri indirizzi, la conoscenza legale doveva comunque attingere lo specifico giudizio interessato dall’effetto interruttivo (sia per il curatore, che per il patrocinatore della parte non investita dal fallimento) e andava attribuito rilievo decisivo all’ordinanza d’interruzione pronunciata in udienza (purché comunicata alla curatela, non ancora parte di quel giudizio), ovvero potevano essere sufficienti fatti extraprocessuali (quali l’invio della comunicazione prescritta dall’art. 92 l.fall. o la presentazione della domanda di ammissione al passivo).

Tenuto conto dell’automaticità dell’effetto interruttivo ricollegato alla dichiarazione di fallimento (a differenza di quanto previsto dalla disciplina di carattere generale recata dagli artt. 300 e seguenti c.p.c.), i giudici di legittimità, riconducendo a unità il ravvisato contrasto, hanno posto l’accento sulla necessità che la conoscenza, oltre che legale (a garanzia della sua effettività), derivi da fonti che risultino ex ante idonee a documentarne in modo certo o quantomeno attendibile il contenuto, così accordando preferenza alla dichiarazione giudiziale d’interruzione, perché maggiormente in grado di salvaguardare il diritto di difesa di tutte le parti del processo.

Pertanto, sebbene l’interruzione del giudizio sia automatica, in virtù di quanto stabilito dall’art. 43, comma 3, l.fall., l’onere di riassunzione non può essere ravvisato in assenza della relativa declaratoria (sebbene priva di natura costitutiva), che rappresenta un mezzo partecipativo dell’evento interruttivo assolutamente privilegiato, vuoi per l’autorevolezza del soggetto che la emette (trattandosi del giudice del processo colpito dall’evento), vuoi per la sua sicura riferibilità al giudizio che subisce le conseguenze prodotte dalla sentenza di fallimento (in termini – come detto – automatici): la soluzione così delineata, del resto, si pone in sintonia con quanto previsto dal nuovo Codice della crisi d’impresa, che, all’art. 143, comma 3, fa decorrere il termine per la riassunzione proprio da quando l’interruzione viene dichiarata dal giudice.

Occorre, peraltro, che il provvedimento giudiziale sia portato a conoscenza delle parti nelle forme di legge, vale a dire, ove non risulti applicabile la regola di cui all’art. 176, comma 2, c.p.c. (a mente del quale le ordinanze pronunciate in udienza si ritengono conosciute dalle parti presenti e da quelle che dovevano comparirvi), per effetto di notificazione su impulso di chi abbia interesse alla consumazione del termine ex art. 305 c.p.c. o di comunicazione effettuata dall’ufficio giudiziario (e ciò rileva soprattutto con riguardo alla posizione del curatore, che non è automaticamente parte, in sostituzione del fallito, ma diviene tale solo a seguito di apposita costituzione).

Calando tali principi nel caso oggetto del ricorso, vale a dire collocando il dies a quo per la decorrenza del termine per la riassunzione del processo interrotto in corrispondenza dell’udienza nel corso della quale era stata pronunciata la relativa ordinanza (venendo in considerazione la posizione della parte non colpita dal fallimento, il cui procuratore era presente e, dunque, legalmente a conoscenza del provvedimento), la riassunzione era da reputarsi tempestiva, non potendosi attribuire rilevanza – a differenza di quanto avevano ritenuto i giudici di merito – alla data in cui era stata ricevuta la comunicazione ex art. 92 l.fall. (vieppiù che essa non conteneva alcuno specifico riferimento al processo di cui era parte il fallito).