21 Febbraio 2023

Le conseguenze della mancata partecipazione del P.M. all’udienza per l’apertura della liquidazione giudiziale

di Valentina Baroncini, Avvocato e Ricercatore di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDF

Trib. Bergamo, 13 settembre 2022, Pres. De Simone

[1] Liquidazione giudiziale – Istanza del pubblico ministero – Mancata presenza all’udienza – Conseguenze.

La mancata presenza del pubblico ministero all’udienza per l’apertura della liquidazione giudiziale fissata in seguito a ricorso da lui presentato non comporta rinuncia o desistenza dalla domanda.

CASO

[1] In data 4 agosto 2022 (e, dunque, a una ventina di giorni dall’entrata in vigore del CCI), il pubblico ministero presentava al Tribunale di Bergamo (non già domanda di accesso alla liquidazione giudiziale a norma dell’art. 37 CCI, bensì) istanza per la dichiarazione di fallimento ai sensi del previgente art. 6 l.fall.

Giunti all’udienza per la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, il Tribunale lombardo non solo scopriva di essere stato adito da una irrituale domanda ex art. 6 l.fall. – di cui il debitore non mancava di eccepire l’inammissibilità -, ma si ritrovava altresì al cospetto della mancata comparizione del pubblico ministero: dovendo, conseguentemente, decidere della sorte di tale irrituale domanda nell’assenza del soggetto che la aveva proposta.

SOLUZIONE

[1] Con il decreto in commento, il Tribunale lombardo ha dapprima chiarito che la mancata partecipazione del pubblico ministero all’udienza non possa essere intesa quale implicita rinuncia, da parte di tale soggetto, alla domanda presentata e, in seconda battuta, avvalendosi dei propri poteri di interpretazione della domanda medesima ha provveduto a riqualificarla d’ufficio nei termini di istanza per l’apertura della liquidazione giudiziale.

Conseguentemente, disponeva mandarsi gli atti alla cancelleria affinché provvedesse alla definizione del procedimento nel ruolo prefallimentare con inserimento nel ruolo Procedimento Unitario, fissava nuova udienza avanti al giudice designato, con avvertimento al debitore della facoltà di depositare memorie difensive, documenti o relazioni tecniche sino a sette giorni prima dell’udienza.

QUESTIONI

[1] La prima questione affrontata dal Tribunale di Bergamo riguarda le conseguenze da ricollegare alla mancata partecipazione del pubblico ministero istante per l’apertura della procedura concorsuale liquidatoria all’udienza fissata per la relativa decisione.

La decisione del Tribunale di Bergamo, di sostanziale irrilevanza di tale mancata comparizione – nel senso che da essa il giudice non possa desumere alcuna implicita volontà di rinuncia alla domanda proposta -, si pone in linea di continuità con il richiamato arresto di Cass., 14 gennaio 2019, n. 643, la quale, pronunciandosi in relazione al procedimento per la dichiarazione di fallimento, ha chiarito che “quando l’iniziativa sia stata assunta dal pubblico ministero, affinché il giudice possa pronunciarsi nel merito è sufficiente che il ricorso sia stato ritualmente notificato all’imprenditore, sicché è irrilevante la mancata partecipazione della parte pubblica all’udienza prefallimentare, non potendosi trarre da una simile condotta alcuna volontà, anche solo implicita, di rinunciare o desistere all’istanza presentata”. Tale affermazione, secondo la richiamata pronuncia, si porrebbe peraltro “in coerenza con il generale principio secondo cui, ove la parte non si presenti all’udienza conclusiva del procedimento al fine di rappresentare al giudice le proprie istanze finali, vale la presunzione che la stessa abbia voluto tenere ferme le conclusioni precedentemente formulate”.

Il principio generale da ultimo richiamato è stato pronunciato in relazione alla mancata comparizione del difensore della parte all’udienza di precisazione delle conclusioni del processo ordinario di cognizione.

L’attività di precisazione delle conclusioni, come noto, coincide con la manifestazione, precisa e definitiva, delle domande che le parti rivolgono al giudice, tenuto conto di tutti gli elementi emersi nel corso della trattazione e dell’eventuale istruzione probatoria. E a tal proposito si discorre di omessa precisazione delle conclusioni in relazione al comportamento della parte che ometta tout court di rispondere all’invito a manifestare in forma definitiva le proprie conclusioni (ad esempio, non comparendo all’udienza di precisazione delle conclusioni). In relazione a tale condotta, pacificamente si afferma come la stessa non importi alcuna particolare conseguenza sfavorevole per la parte, dovendosi presumere che la stessa abbia inteso riferirsi alle conclusioni formulate in precedenza, o nella citazione introduttiva o nella comparsa di risposta, ovvero pure all’udienza di trattazione, attraverso le quali il petitum possa risultare chiaramente enunciato.

Di talché, in relazione alla vicenda in discorso, dobbiamo concludere che la mancata partecipazione del pubblico ministero all’udienza, davanti al collegio, per l’apertura della liquidazione giudiziale non implichi rinuncia, da parte di tale organo, alla domanda inizialmente avanzata, dovendosi presumere che, con tale mancata partecipazione, il pubblico ministero abbia inteso riferirsi alle conclusioni formulate con il ricorso introduttivo. E questo, anche in considerazione di un argomento fondamentale, ossia del fatto che l’istanza del pubblico ministero non è riguardabile quale esercizio di un vero e proprio diritto di azione (suscettibile di rinuncia), bensì quale mera segnalazione: sicché, l’unico profilo di rilevanza della mancata partecipazione di tale organo all’udienza per l’apertura della procedura – lungi dall’identificarsi con la rinuncia all’azione -, è appunto quello dell’omessa precisazione delle conclusioni formulate con il ricorso introduttivo.

La seconda questione affrontata dal Tribunale di Bergamo è stata innescata da ciò, che la predetta domanda del pubblico ministero, “implicitamente richiamata”, presentata in un momento in cui il CCII era già entrato in vigore, non si risolveva in una richiesta di apertura della liquidazione giudiziale, bensì in una (vecchia) istanza per la dichiarazione di fallimento.

Posto di fronte all’alternativa se considerare tale vizio come insuscettibile di sanatoria, sì da dove rigettare in rito il ricorso presentato, ovvero sanabile – in particolare, tramite un’operazione di riqualificazione giuridica ex officio della domanda proposta -, il Tribunale di Bergamo, ancora condivisibilmente, ha optato per questa seconda soluzione.

Quale supporto argomentativo alla propria decisione, il provvedimento richiama l’arresto di Cass., 11 luglio 2022, n. 21865, la quale, per quanto di interesse nella presente sede, ha affermato che “nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda il giudice di merito, non condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte, ha il potere-dovere di accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non solo dal tenore letterale degli atti, ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla parte e dalle precisazioni dalla medesima fornite nel corso del giudizio, nonché dal provvedimento concreto dalla stessa richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e di non sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella esercitata. Tale ampio potere, attribuito al giudice per valutare la reale volontà della parte quale desumibile dal complessivo comportamento processuale della stessa, estrinsecandosi in valutazioni discrezionali sul merito della controversia, è sindacabile in sede di legittimità soltanto se il suo esercizio ha travalicato i predetti limiti, ovvero è insufficientemente o illogicamente motivato”.

Anche sul punto, non paiono esservi particolari deviazioni rispetto ai principi generali: la pronuncia, anzi, si situa nel solco di quel granitico orientamento di legittimità che riconosce che la domanda giudiziale debba essere oggetto di apposita interpretazione da parte del giudice, tendente a metterne a fuoco, al di là delle espressioni letterali utilizzate dalla parte, il contenuto sostanziale, ossia l’effettiva volontà della parte e gli scopi di utilità pratica da questa perseguiti tramite il ricorso all’autorità giudiziaria, ossia il provvedimento concretamente richiesto .

Nel compimento di tale operazione, il giudice può avvalersi di svariati elementi, tra i quali, ai nostri fini, è destinata a venire in rilievo la parte motiva-argomentativa dell’atto introduttivo del giudizio; gli unici limiti sono rappresentati dal divieto, in capo al giudice, di ricercare sua sponte il provvedimento effettivamente utile per il richiedente (pena la violazione del principio della domanda e del diritto di difesa della controparte) e di ricostruire una fattispecie storica diversa da quella indicata dalle parti senza sollecitare il contraddittorio tra le parti.

Ciò significa che, nel caso di specie, il Tribunale di Bergamo ha agito correttamente, laddove non si è fermato alla formulazione letterale del ricorso presentato dal pubblico ministero (che erroneamente faceva riferimento all’istanza per la dichiarazione di fallimento ex art. 6 l.fall.), ma ha provveduto a riqualificare tale domanda, ritenendo legittimamente che la reale intenzione di tale organo fosse quella di domandare l’apertura della (nuova) liquidazione giudiziale.

Con ciò, l’autorità giudiziaria non ha violato alcuno dei principi sin qui richiamati, e la dimostrazione dell’assunto non pare porre particolari complessità.

La liquidazione giudiziale, infatti, può pacificamente essere qualificata nei termini di istituto che, in tutto e per tutto, ha preso il posto, nel nostro ordinamento concorsuale, della procedura di fallimento, a partire dai presupposti, soggettivi e oggettivi, di accesso allo strumento.

Con maggiore precisione, la domanda di apertura della liquidazione giudiziale, rispetto all’istanza per la dichiarazione di fallimento, non è tesa a ottenere un’utilità differente – non essendo preordinata ad attribuire effetti giuridici diversi rispetto a quelli invocati dalla parte pubblica -, e tantomeno presuppone l’integrazione di una differente fattispecie storica: in altri termini, petita e causae petendi delle due domande restano immutati, assicurando il dovuto rispetto ai principi della domanda e della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato.

Per quanto attiene al diritto di difesa della parte, poi, possiamo senz’altro aggiungere che, sul terreno pratico, il debitore che si sia visto notificare una (irrituale) istanza per la dichiarazione di fallimento, una volta che, all’udienza, assista all’operazione del giudice adito, di riqualificazione della stessa in una domanda per l’apertura della liquidazione giudiziale, non possa davvero dirsi sorpreso, con ciò scongiurando anche il rischio di una decisione “della terza via”.

Come si è già avuto modo di rilevare, peraltro, il Tribunale di Bergamo si è comunque premurato di disporre un rinvio dell’udienza, “al fine di consentire al debitore una difesa nei modi e nei tempi previsti dal Codice della Crisi”.

Infine, possiamo rilevare come la soluzione prescelta si lasci apprezzare anche dal punto di vista dell’economia processuale, sub specie di conservazione degli atti giuridici, scongiurando i rischi connessi a una qualificazione del vizio nei termini di assoluta insanabilità, ossia la necessità di ricominciare il processo ex novo.

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