2 Marzo 2021

L’applicazione della clausola statutaria simul stabunt simul cadent non equivale a una revoca dall’incarico e, se applicata senza finalità abusive, non fa sorgere alcun diritto a favore dell’amministratore decaduto

di Eleonora Giacometti, Avvocato Scarica in PDF

Tribunale di Milano, Sezione Specializzata in materia di Impresa, Sentenza n. 2565 pubblicata il 24 aprile 2020.

Parole chiave: Società di capitali – Società a responsabilità limitata – simul stabunt simul cadent – revoca amministratore – revoca senza giusta causa –

Massima: la clausola cd. simul stabunt simul cadent assolve alla funzione di preservare gli equilibri all’interno dell’organo gestorio di una società e la sua applicazione, in assenza di finalità abusive o strumentali, non equivale ad una revoca dall’incarico e, pertanto, non fa sorgere alcun diritto a favore dell’amministratore decaduto. Quest’ultimo, infatti, accettando l’iniziale conferimento dell’incarico aderisce implicitamente alle clausole dello statuto sociale che regolano le condizioni di nomina e la permanenza degli organi sociali, con conseguente accettazione della possibilità che si verifichi anche una cessazione anticipata dall’incarico nel caso di applicazione della predetta clausola, ed in ogni caso senza alcun risarcimento del danno.

Disposizioni applicate: articoli 2386 c.c., 2383 c.c., 1723 c.c. e 1725 c.c.

Nel caso in esame l’attore amministratore di una S.r.l. ha agito in giudizio sostenendo di essere stato revocato senza giusta causa dal proprio incarico attraverso l’esercizio abusivo della clausola statutaria che prevedeva la decadenza dell’intero organo gestorio al venire meno della maggioranza dei suoi componenti (c.d. simul stabunt simul cadent), che si sarebbe configurato a causa delle dimissioni ingiustificatamente presentate dagli altri amministratori, senza alcuna ragione concernente il corretto funzionamento della società, ed al solo scopo di cagionare la decadenza.

Al riguardo, il Tribunale ha innanzitutto richiamato il proprio orientamento in merito alla ratio della clausola statutaria simul stabunt simul cadent, che è quella di preservare gli equilibri all’interno dell’organo gestorio prestabiliti al momento della nomina e di evitare che la gestione della società venga esercitata da un organo minoritario quando, per effetto della cessazione di alcuni consiglieri, si siano alterati gli equilibri già definiti.

Secondo la giurisprudenza del Tribunale meneghino, inoltre, la configurabilità del carattere abusivo o strumentale della vicenda decadenziale si ha solo a fronte dell’assolvimento di un rigido onere probatorio, essendo necessaria la dimostrazione che le dimissioni di uno o più amministratori siano state abusive o strumentali, ossia dettate unicamente o prevalentemente dallo scopo di eliminare gli amministratori sgraditi in assenza di una giusta causa, eludendo in tal modo anche l’obbligo di corresponsione all’amministratore colpito degli emolumenti residui (oltre che del risarcimento del danno) che gli spetterebbero se fosse cessato dalla carica per effetto di una revoca ex art. 2383 c. 3° c.c. nelle S.p.A. ed ex art. 1723 c.2° c.c. e 1725 c.c. nelle S.r.l. (cfr. Tribunale Milano sentenza n. 4955/2016.).

Applicando tali principi, all’esito dell’istruttoria il Tribunale ha ritenuto che gli elementi allegati a dimostrazione dell’esercizio abusivo e contrario a buona fede della clausola decadenziale fossero solo indiziari e non tali da poter costituire una prova della tesi attorea, evidenziando, tra le altre cose, che:

(i) l’attore non aveva impugnato la delibera di nomina dei componenti del C.d.A., che modificava i termini del mandato precedentemente conferitogli (trasformandolo da un incarico a tempo determinato di 6 anni e rinnovabile in un incarico a tempo indeterminato “sino a revoca o dimissioni”);

(ii) l’attore non aveva allegato nessun elemento a sostegno della collusione, né fornito la prova di un accordo tra i consiglieri dimissionari in ordine alla esclusiva funzionalità delle loro dimissioni alla sola decadenza del C.d.A., essendo invece emerso che all’interno del C.d.A. la sua specifica funzione di amministratore indipendente era venuta meno a seguito del rimborso del prestito obbligazionario cui tale figura era collegata, ed essendo, infine,

(iii) irrilevante che le dimissioni degli altri consiglieri fossero prive di causa, posto che all’amministratore è riconosciuta dal nostro ordinamento, ex art. 2385 c.c., una sostanziale libertà di recesso, anche in assenza di giusta causa o di un giustificato motivo, purché non vi sia una concertazione strumentale in danno di altri componenti dell’organo.

In conclusione, quindi, la domanda risarcitoria dell’attore è stata dichiarata infondata poiché, in assenza di finalità abusive o strumentali, l’applicazione della clausola simul stabunt simul cadent non equivale ad una revoca dall’incarico e non fa quindi sorgere alcun diritto in capo all’amministratore decaduto, che accettando il conferimento iniziale dell’incarico aderisce implicitamente a tutte le clausole dello statuto sociale che regolano le condizioni di nomina e permanenza degli organi sociali, compresa appunto la clausola decadenziale, senza alcun diritto ad un risarcimento del danno (cfr. in tal senso, anche Trib. Milano n. 388/2015 e n. 4955/2016).

Il Tribunale ha infine osservato che, quand’anche si fosse effettivamente accertato un impiego abusivo della clausola in questione, la domanda risarcitoria dell’attore, avente ad oggetto un danno parametrato alla durata di 18 anni che avrebbe dovuto costituire il suo mandato, sarebbe comunque risultata infondata, poiché secondo il Tribunale gli sarebbe al massimo spettata una indennità pari al compenso dovuto per la durata del preavviso che la società gli avrebbe dovuto concedere in occasione della revoca (preavviso che, secondo la prassi del Tribunale, si attesta su una durata ritenuta congrua di 6 mesi).

Ciò in quanto, secondo il consolidato orientamento di legittimità, la revoca di un amministratore di una S.r.l., nominato a tempo indeterminato, non trova la sua disciplina nel combinato disposto degli artt. 2487 e 2383 c.c., bensì nell’art 1725 c.c., il cui secondo comma prevede che la revoca di un mandato oneroso a tempo indeterminato attribuisca al mandatario il diritto al risarcimento del danno, in assenza di giusta causa, soltanto se la revoca non sia stata comunicata con un congruo preavviso, e tale principio deve considerarsi applicabile, in via analogica, all’amministratore di una società di capitali (così, Cass. sent. n. 3312/2000 che richiamata Cass. sent. n. 9482/999).

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