16 Novembre 2015

La contestazione sulla titolarità del diritto fatto valere in giudizio è eccezione in senso stretto oppure mera difesa?

di Stefano Nicita Scarica in PDF

Cass. Civ. Sez. VI, 13 febbraio 2015, n. 2977 (ord.)

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Processo civile – Eccezione in genere – Legittimazione ad causam – Titolarità del diritto controverso  – Distinzione – Rilevabilità d’ufficio – Rimessione alle Sezioni unite
(C.p.c. artt. 100, 112, 167, 345; C.c. artt. 1325, 1350, 1362, 2697)

[1] A differenza di quel che si ritiene concordemente in tema di legitimatio ad causam, o legittimazione ad agire, quale condizione dell’azione, il cui difetto è rilevabile d’ufficio, la giurisprudenza di legittimità non è unanime sulla qualificazione della contestazione (quale mera difesa o oppure quale eccezione in senso stretto) e della conseguente rilevabilità d’ufficio della reale titolarità attiva o passiva del diritto sostanziale dedotto in giudizio.  (In una tale situazione di contrasto sono stati rimessi gli atti al Primo Presidente onde valutare l’opportunità che le Sezioni Unite si pronuncino ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c.).

CASO
[1] 
Nel gennaio 2013 la Corte d’Appello di Firenze, in un giudizio di risarcimento danni nei confronti dell’Anas (all’epoca Ente Nazionale per le strade), in riforma della sentenza di primo grado, rigetta la domanda dell’appellato che lamentava di essere stato danneggiato.

Il soccombente in appello ricorre per Cassazione contestando, tra l’altro, la violazione e/o falsa applicazione art. 112 c.p.c., art. 345 c.p.c., art. 1325 c.c., art. 1350 c.c., art. 1362 c.c. in relazione al “motivo di appello che attiene alla legittimazione passiva (o meglio, alla titolarità del diritto fatto valere in giudizio)”. 

Nel ricorso, viene contestato l’assunto della Corte fiorentina secondo cui la mancanza di titolarità del diritto controverso debba e possa essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio. Secondo tale prospettazione, la titolarità del diritto è “un elemento costitutivo della domanda” che deve “essere provata dall’attore, e la sua mancanza deve essere rilevata d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, salvo l’operare delle preclusioni che possono determinarsi nel processo”. Con tale risoluzione la Corte d’Appello nega rilevanza agli argomenti dell’appellato “circa la tardività della “eccezione di estraneità”, in quanto sollevata solo in appello dal convenuto, contumace in primo grado”.

SOLUZIONE

[1] La Corte di Cassazione rilevata l’esistenza di una situazione di contrasto giurisprudenziale rimette gli atti al Primo Presidente onde valutare l’opportunità che le Sezioni Unite si pronuncino ai sensi dell’art. 374 c.p.c.

QUESTIONI

[1] Nei termini in cui classicamente si pone, il problema è dunque quello di distinguere in concreto tra “eccezioni” (che allargano il thema decidendum, attraverso l’introduzione in giudizio di fatti modificativi, impeditivi e estintivi, diversi da quelli costitutivi “allegati” dall’attore) e c.d. “mere difese” che non allargano il thema decidendum in quanto attinenti a fatti costitutivi della domanda e non ricadono nelle preclusioni previste dagli artt. 167 e 345 c.p.c..

Il “non contestare” nei termini previsti dagli artt. 167 e 345 c.p.c. un fatto, necessario ma non allegato da controparte in modo analitico e dettagliato, equivale a darne per provata l’esistenza?
La lettera dell’art. 2697 c.c., comma 2, sembrerebbe essere chiara nel demandare l’onere della prova soltanto a “chi eccepisce l’inefficacia” (nel caso in esame al convenuto) di un fatto costitutivo del diritto, già allegato (e provato?) da controparte.

In definitiva, l’ordinanza in oggetto, implicitamente, si pone il problema di chiarire se sarebbe o non sarebbe onere del convenuto eccepire in senso stretto e provare soltanto l’eventuale ulteriore fatto che “paralizzi” l’efficacia del titolo costitutivo già dedotto e provato dall’attore, considerando, invece, quale mera difesa la rilevazione della mancanza di allegazione e prova di un fatto costitutivo della titolarità del diritto (cfr. COMOGLIO, FERRI, TARUFFO, Lezioni sul processo civile, I, Bologna, 2011, 479 e ss.; TARUFFO, La semplice verità, Bari, 2009, 113 ss.).

L’impostazione tradizionale del problema sembra tuttavia alterata dall’attuale primo comma dell’art. 115 c.p.c. (come modificato nel 2009) il quale prevede che: “il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”. La non contestazione della controparte, quindi, esonera dall’onere della prova la parte che ha allegato il fatto (Sul tema, cfr. TEDOLDI, La non contestazione nel nuovo art. 115 c.p.c., in Rivista di diritto processuale, 1, 2011, 85; CEA, Commento all’art. 115 c.p.c., in Nuove leggi civili commentate, 2010, 4-5, 798) e il nodo problematico si sposta, logicamente, sul piano delle preclusioni processuali entro cui resta proponibile tale contestazione. Se ne deve allora trarre la conseguenza che la mancata, tempestiva contestazione del fatto costitutivo del diritto impedisce al giudice di confutarne la sussistenza nei gradi successivi del processo – e questo indipendentemente dalla scelta di qualificare la questione come eccezione in senso proprio o come mera difesa?

Spetta, ora, alle Sezioni Unite dirimere il contrasto.