27 Febbraio 2018

Impugnazione di riconoscimento del figlio naturale e onere della prova

di Stefano Nicita Scarica in PDF

Cass. civ. Sez. I, 14 dicembre 2017, n. 30122 , Pres. Dogliotti, Est. Di Marzio

Prova civile – Filiazione – Riconoscimento di prole naturale – Impugnazione per difetto di veridicità – Onere della prova – Regime probatorio.

(Cod. civ., art. 263, 2697, 2730 C.Civ.; Cod. proc. civ., art. 115, 116, 118)

[1] Chi impugna il riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità deve dimostrare in giudizio, anche attraverso presunzioni, la non rispondenza al vero del riconoscimento attraverso un regime di prova che non è diverso rispetto a quello relativo alle altre azioni di stato.

CASO

[1] Un nipote impugna, per difetto di veridicità (art. 263 c.c.), il riconoscimento di tre figli naturali effettuato da suo zio da tempo scomparso. Il riconoscimento era avvenuto in favore dei tre soggetti, con atti trascritti nel registro delle nascite del Comune di residenza.

Il Tribunale accoglie la domanda e dispone che l’Ufficiale dello Stato civile di quel Comune provveda agli adempimenti di sua competenza. Due, dei tre soggetti, prestano quindi acquiescenza alla decisione, mentre il terzo ricorre in appello.

Nel 2014, la Corte d’Appello conferma la sentenza sulla base di una pluralità di argomenti di prova, tra i quali: (a) l’opposizione dei resistenti a consentire l’indagine del DNA sul corpo del defunto, che li aveva riconosciuti come figli; (b) la mancata menzione dei figli naturali riconosciuti nel testamento del defunto, che riportava soltanto disposizioni a favore del nipote; (c) la dichiarazione del preteso padre che, nel conferire una procura notarile aveva sostenuto di essere “celibe e di non avere figli”.

Avverso questa pronuncia ha proposto ricorso per Cassazione il presunto figlio. Resiste con controricorso il nipote.

SOLUZIONE

[1] La Suprema Corte rigetta il ricorso con la motivazione riportata in massima.

 QUESTIONE

[1] La legge 10 dicembre 2012, n. 219, con la lett. g) dell’art. 2, 1° comma, ha delegato il governo a modificare la «disciplina dell’impugnazione del riconoscimento con la limitazione dell’imprescrittibilità dell’azione solo per il figlio e con l’introduzione di un termine di decadenza per l’esercizio dell’azione da parte degli altri legittimati». In attuazione di tale delega, quindi, l’art. 28, D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, ha riformulato l’art. 263 c.c..

Il testo dell’articolo previgente era il seguente: «Il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse.  L’impugnazione è ammessa anche dopo la legittimazione.  L’azione è imprescrittibile.».  Oggi, invece,  l’art. 263 c.c. prevede che l’azione sia imprescrittibile riguardo al figlio e che, invece, si prescriva nel termine di un anno (che decorre dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita), per l’autore del riconoscimento, e nel termine di cinque anni, per gli altri legittimati.

Ciò premesso, nell’ordinanza in esame, la Corte fonda la propria decisione su alcuni interessanti assunti in ordine al regime probatorio dell’azione di cui all’art. 263 c.c..

Sebbene, infatti, onde accogliere l’azione di impugnazione della veridicità del riconoscimento di figlio naturale, un orientamento giurisprudenziale risalente considerava necessaria la prova della “assoluta impossibilità di concepimento” (Cass.,10 luglio 2013, n. 17095; Cass.,11 settembre 2015, n. 17970), nel provvedimento in commento la Corte ritiene che “questa previsione, non è dettata dalla legge, ed invero non si rinvengono ragioni che inducano a ritenere diversa la prova che è necessario fornire, in materia di impugnazione del riconoscimento, rispetto alle ipotesi affini, quale il disconoscimento della paternità“.

In effetti, la giurisprudenza precedente al D.Lgs. n. 154/2013, riteneva che chi agiva ex art. 263 c.c. dovesse dimostrare l’inesistenza del rapporto biologico (tra chi aveva riconosciuto il figlio e il soggetto che era stato riconosciuto) attraverso: (a) la dimostrazione dell’assoluta impossibilità del rapporto biologico (Cass., 10 luglio 2013, n.17095; Cass., 08 maggio 2009, n.10585; Cass., 26 marzo 2003, n. 4462) anche per presunzioni (Cass., 19 marzo 2002, n.3976; Cass., 2 agosto 1990, n.7700); ovvero (b) la dimostrazione della non veridicità del riconoscimento con la prova di essere altri il vero genitore (Cass. 22 novembre 1995, n.12085); ovvero (c) le indagini ematologiche ed immunogenetiche sul DNA (Cass. 29 maggio 2008, n.14462; Cass. 17 febbraio 2006, n.3563; Trib. Genova, 16 aprile 2013; Trib. Monza, 16 giugno 2005).

Nell’ordinanza in esame, la Cassazione ritiene che l’orientamento giurisprudenziale tradizionale, assai restrittivo, avesse una sua giustificazione solo con riferimento alla disciplina anteriore alle riforme del 2012 e 2013.

La diversità di regime dell’azione di impugnazione della veridicità trovava, in passato, fondamento nella pretesa natura giuridica della impugnazione di riconoscimento prevista dall’art. 263 c.c. (in dottrina, v. C.M. BIANCA, Diritto civile, II, 1, La famiglia, 5a ed., Milano, 2014, 397 s.; G. BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, 6a ed., Torino, 2014; A. CICU, La filiazione, in Tratt. Vassalli, Torino, 1969, 194; M. STELLA RICHTER, V. SGROI, Delle persone e della famiglia, in Comm. cod. civ., Torino, 1967, 149;  A. PALAZZO, La filiazione fuori del matrimonio, Milano, 1965, 106; U. MAJELLO, Della filiazione naturale e della legittimazione, in Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 1982, 133), la quale, essendo diretta a far dichiarare la non veridicità del riconoscimento, avente natura confessoria, postulava la dimostrazione rigorosa (sia pure attraverso qualsiasi mezzo di prova, anche presuntivo) dell’assoluta impossibilità che il soggetto il quale ha effettuato il riconoscimento fosse il padre del soggetto riconosciuto come figlio (Cass., 2 agosto 1990, n. 7700).

Ma, argomenta la Corte nell’ordinanza, “il concepimento da parte di genitori non uniti in matrimonio non può essere considerato una “colpa” suscettibile di essere oggetto di confessione (“la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte“, art. 2730 c.c.). […] Una simile concezione non appare più sostenibile, alla luce dell’evoluzione del diritto positivo, così come della concezione sociale dei valori”.

In conclusione, secondo la Suprema Corte, le novità introdotte dalle recenti riforme giustificano un pieno allineamento dell’orientamento giurisprudenziale a quello delle altre azioni di stato (così, in particolare, Cass., 01 febbraio 2016, n. 1859). La CTU genetica va, quindi, considerata “l’unica forma di accertamento attendibile nella ricerca della filiazione, e deve pertanto valorizzarsi il contegno della parte che si opponga al suo espletamento” (cfr. Cass., 13 novembre 2015, n. 23290 ma, in senso contrario, Cass.,11 settembre 2015, n.17970).