20 Giugno 2016

Conversione del pignoramento e regime della relativa ordinanza

di Viviana Battaglia Scarica in PDF

 

  1. – Nonostante i ripetuti interventi legislativi, l’art. 495 c.p.c. in tema di conversione del pignoramento continua a porre numerosi problemi. Quello più spinoso, considerato “vero e proprio nodo cruciale dell’istituto” (in questo senso Verde, voce Pignoramento in generale, in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 784), riguarda l’ambito della cognizione riservato al giudice dell’esecuzione nel determinare “la somma da sostituire al bene pignorato” e, di conseguenza, la stabilità della relativa ordinanza e i rimedi contro la stessa esperibili.
    Ovviamente, il problema non si pone (o comunque risulta fortemente ridimensionato) quando il debitore non ottemperi alla conversione e venga perciò dichiarato decaduto dall’invocato beneficio, essendo pacifico in tal caso che l’ordinanza ex art. 495, 3° co, c.p.c. non esplica alcuna efficacia vincolante nella successiva fase distributiva né, tanto meno, al di fuori del procedimento esecutivo nel cui corso è stata pronunciata. Controversa, invece, è la soluzione da adottare ove il debitore versi puntualmente ed integralmente le somme determinate nella predetta ordinanza, disputandosi se l’eseguito pagamento, cui consegue la liberazione del bene staggito, renda o meno immodificabile la quantificazione del credito operata in sede di conversione. 
  1. – Secondo l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione determina le somme necessarie ai fini della conversione comporta una valutazione sommaria delle pretese del creditore pignorante e dei creditori intervenuti, nonché delle spese già anticipate o presumibilmente da anticipare, prescindendo dalle contestazioni circa la sussistenza o l’ammontare dei singoli crediti o la sussistenza di diritti di prelazione, che vanno sollevate solo in sede di distribuzione a termini dell’art. 512 c.p.c (ferma restando, inoltre, la possibilità per il debitore di proporre opposizione all’esecuzione qualora intenda assumere che un credito non esiste o che l’importo dello stesso è inferiore a quanto dovuto. Cfr., da ultimo, Cass. nn. 685/2016, 4230/2015 e 7537/2014).
    Stando così le cose, l’ordinanza di conversione configura un atto esecutivo impugnabile con opposizione ex art. 617 c.p.c. non per l’accertamento dell’importo dei crediti contestati, bensì solo per la verifica che la determinazione delle somme in concreto effettuata è conforme ai criteri desumibili dall’art. 495. Dovrebbero perciò venire in rilievo errori relativi al quomodo del processo esecutivo così come disciplinato dall’art. 495 (cioè vizi in procedendo come, ad es., se non vi sia stata istanza, o non sia stato rispettato il termine di preclusione di volta in volta stabilito dalle varie versioni dell’art. 495, o non sia stata disposta l’audizione delle parti, o il giudice abbia considerato voci di credito non previste dalla norma, ecc…), nonché eventuali errori di calcolo, con esclusione delle questioni relative alla sussistenza e all’ammontare dei crediti, che da chiunque promosse (debitore escusso o creditori) vanno rinviate alla fase distributiva e al rimedio di cui all’art. 512 (cfr., ex multis, Cass. n. 4446/2009; contra, nel senso di ammettere l’opposizione agli atti esecutivi avverso l’ordinanza di conversione anche per contestare esistenza ed ammontare dei singoli crediti, Cass. n. 20733/2009, in Riv. es. forz. 2010, 312 e ss. con nota di CAPPONI, La verificazione anticipata dei crediti nell’espropriazione forzata: vecchie soluzioni, nuovi problemi).
    In conclusione, l’ordinanza ex art. 495, 3° co, c.p.c., non avendo contenuto e attitudine decisori, è sempre utilmente suscettibile di revisione in sede distributiva, e ciò a prescindere dalla sua compiuta attuazione, cui consegue soltanto l’effetto della sostituzione del bene pignorato con le somme versate e della liberazione del primo.

 

  1. – L’orientamento su riferito è stato recentemente confermato da Cass. n. 685/2016, secondo cui “la quantificazione operata in sede di ordinanza determinativa delle somme necessarie ai fini della conversione è istituzionalmente provvisoria e finalizzata esclusivamente all’effetto, limitato e contingente, della sospensione della procedura espropriativa e soprattutto della successiva liberazione del compendio staggito”. Il che – precisa la S.C. – si spiega e si giustifica alla stregua del principio della tendenziale reversibilità di ogni accertamento del giudice dell’esecuzione nel tempo anteriore alla distribuzione (od all’attribuzione, in caso di unico creditore) del ricavato (purché, ovviamente, non sia stata proposta precedente opposizione proprio sull’an o sul quantum del credito e, a fortiori, se all’esito di essa si sia formato un giudicato formale e sostanziale).
    Il principio in parola non sembra possa mettersi seriamente in discussione, specie alla luce delle intervenute modifiche al regime delle controversie in sede di distribuzione del ricavato (art. 512 c.p.c.). Ed infatti, se anche il provvedimento con cui il giudice dell’esecuzione risolve le predette controversie non contiene un accertamento in assoluto del credito contestato suscettibile di acquistare autorità di cosa giudicata (tant’è che si tratta di una ordinanza impugnabile con opposizione agli atti esecutivi), a fortiori deve escludersi che la preliminare ordinanza di conversione possa invece rivestire tale autorità e divenire immutabile sol perché compiutamente eseguita.
    In altri termini, il pagamento da parte del debitore escusso delle somme determinate in sede di conversione non estingue le pretese dei creditori impegnati nell’espropriazione, consentendo all’interessato di contestare esistenza ed ammontare del credito non solo in sede distributiva, ma anche con autonomo giudizio ordinario. Il che, se toglie competitività al procedimento di conversione, consentendo di differire le contestazioni al momento satisfattivo o perfino in autonoma sede cognitiva, è comunque coerente con la scelta complessiva del nostro legislatore di attribuire a qualsiasi ordinanza del giudice dell’esecuzione la natura di mero atto esecutivo.
    Né può invocarsi a sostegno dell’opposta tesi il principio della irrevocabilità delle ordinanze del giudice dell’esecuzione che siano state eseguite (art. 487 c.p.c.). L’attuazione dell’ordinanza, infatti, esclude solo il potere di revoca e modifica da parte dello stesso giudice dell’esecuzione, ma certamente non il potere di impugnare il provvedimento o di contestarne comunque il contenuto nelle apposite sedi.
    A quest’ultimo proposito va tuttavia precisato che, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, “il provvedimento che chiude il processo esecutivo, pur non avendo, in ragione della mancanza di contenuto decisorio, efficacia di giudicato, è tuttavia caratterizzato da una definitività insita nella chiusura di un procedimento esplicato nelle forme atte a salvaguardare gli interessi delle parti, incompatibile con qualsiasi sua revocabilità, atteso che nell’ambito del procedimento esecutivo sussiste un sistema di garanzie di legalità per la soluzione di eventuali contrasti tra le parti. Conseguentemente, il soggetto esecutato che non si sia avvalso dei rimedi oppositivi specificatamente previsti nell’ambito del procedimento esecutivo (in particolare dell’opposizione ex art. 512 c.p.c. avverso all’ordinanza di assegnazione della somma conseguente alla conversione del pignoramento), non può esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata, autonoma azione di ripetizione di indebito contro il creditore procedente (o intervenuto) per ottenere la restituzione di quanto costui ha riscosso, sul presupposto dell’illegittimità dell’esecuzione forzata per ragioni sostanziali” (così Corte app. Genova n. 40/2014; in senso conforme Cass. n. 17371/2011).