23 Ottobre 2018

Cointestazione di conto corrente bancario e prova dell’animus donandi

di Daniele Calcaterra, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ. Sez. II. Ord., 28/02/2018, n. 4682, Pres. Lombardo, Est. Dongiacomo

Atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro presso un istituto di credito – Natura di donazione indiretta – Condizioni – Accertamento dell’esistenza dell’animus donandi – Necessità (c.c. art. 1298, 782; T.U. Legge Bancaria art. 117)

[1] L’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito che risulti essere appartenuta ad uno solo dei contestatari, può essere qualificato come donazione indiretta solo quando sia verificata l’esistenza dell'”animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della detta cointestazione, altro scopo che quello della liberalità.

Donazione indiretta – Forma – Prova (c.c. art. 769, 782, 809)

[2] Nella donazione indiretta la liberalità si realizza, anziché attraverso il negozio tipico di donazione, mediante il compimento di uno o più atti che, conservando la forma e la causa che è ad essi propria, realizzano, in via mediata, l’effetto dell’arricchimento del destinatario, sicché l’intenzione di donare potrà emergere, non già, in via diretta, dall’atto o dagli atti utilizzati, ma solo, in via indiretta, dall’esame, necessariamente rigoroso, di tutte le circostanze di fatto del singolo caso, nei limiti in cui risultino tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio da chi ne abbia interesse.

CASO

[1-2] Tizio conveniva in giudizio Caia, deducendo che la somma di € 50.000,00, da lui prelevata dal conto corrente bancario cointestato con la convenuta, era stata oggetto di donazione da parte di quest’ultima, la quale aveva cointestato il predetto conto corrente ad entrambe le parti versando sullo stesso la somma di € 100.000,00. Tizio chiedeva pertanto che fosse accertata la contitolarità della somma complessiva di € 100.000 e la spettanza in suo favore di metà dell’anzidetta somma, per donazione indiretta e per applicazione dell’art. 1298 c.c.

Caia, costituendosi in giudizio, chiedeva il rigetto della domanda e, in via riconvenzionale, la condanna dell’attore alla restituzione della somma di € 50.000,00, deducendo che la contestazione del conto derivava, in realtà, dalla necessità che le operazioni di versamento e di pagamento fossero effettuate, per suo conto, dall’attore, con il quale aveva rapporti di amicizia da lungo tempo, e della sua età avanzata, mentre non aveva mai manifestato l’animus donandi in relazione alla somma di € 50.000,00, prelevata dall’attore di sua iniziativa. Tizia deduceva inoltre ed in ogni caso la mancanza della forma prevista dall’art. 782 c.c. e dell’inutilità del richiamo all’art. 1298 c.c.

Il tribunale respingeva la domanda dell’attore e, in accoglimento della domanda riconvenzionale, lo condannava al pagamento della somma di € 50.000,00, oltre interessi e spese.

Tizio proponeva appello avverso la sentenza di primo grado.

Il gravame veniva però respinto dalla Corte territoriale sulla scorta di un ragionamento che può essere così riassunto: 1) in caso di donazione indiretta, non è necessaria la forma solenne richiesta dall’art. 782 c.c., essendo sufficiente il rispetto delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l’art. 809 c.c., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive per la donazione l’atto pubblico; 2) la mera cointestazione non costituisce prova della donazione di metà della somma, ma la mera presunzione di titolarità di entrambi i correntisti, in ragione di metà ciascuno, del saldo attivo del conto; 3) l’animus donandi non può essere provato attraverso l’assunzione della prova testimoniale, posto che, se è pur vero che per la donazione indiretta non è necessaria la forma solenne dell’atto pubblico, è pur sempre necessario rispettare la forma del negozio utilizzato che, nella specie, era quello di apertura di conto corrente. Questo, ai sensi dell’art 117 d.lgs n.385/93 (T.U. Legge bancaria), deve essere redatto per iscritto, con la conseguenza che anche la prova dell’animus donandi deve essere data per iscritto ed è quindi inammissibile la richiesta prova testimoniale.

Tizio ricorreva infine in Cassazione affidando le sue lagnanze ad un unico motivo di ricorso, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte d’Appello, dopo avere ammesso che, in caso di donazione indiretta, non è necessaria l’osservanza della forma dell’atto pubblico, ha ritenuto che, trattandosi dell’apertura di un c/c bancario, l’animus donandi doveva risultare comunque per iscritto, finendo con il parificare, quanto alla forma, la donazione indiretta a quella diretta, quando invece, in caso di donazione indiretta, sarebbe necessario osservare solo la forma del negozio scelto per attuare la liberalità atipica, come era avvenuto nel caso di specie, dove era stato sottoscritto un contratto di c/c bancario con la cointestazione dello stesso alle parti e senza che Caia avesse stabilito vincoli in ordine all’utilizzo o al prelievo di somme.

SOLUZIONE

[1-2] La Cassazione accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello, sulla scorta delle considerazioni che seguono.

QUESTIONI

La S.C. ribadisce alcuni principi che possono considerarsi pacifici, perché discendono dalla corretta applicazione delle norme codicistiche o sono espressione di indirizzi ormai consolidati.

Anzitutto, la Corte evidenzia che la forma solenne per le donazioni (al di fuori dai casi di donazione di modico valore di cosa mobile, dove, ai sensi dell’art. 783 c.c., la forma è sostituita dalla traditio) è richiesta esclusivamente per la donazione tipica, ove, per evitare al donante scelte affrettate e poco ponderate, si circonda di particolari cautele la determinazione con la quale il soggetto decide di spogliarsi, senza corrispettivo, dei suoi beni.

Altro discorso vale per le donazioni indirette, cioè per quegli atti che sono accumunati al contratto di donazione per il fatto che al pari di questo comportano un arricchimento del beneficiario, senza corrispettivo e per spirito di liberalità, ma che se ne distinguono, invece, perché derivanti da atti diversi dal contratto di donazione. Per la validità delle donazioni indirette, infatti, non è richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l’art. 809 c.c., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive l’atto pubblico per la donazione (Cass. SU n. 17/18725; Cass. 13/14197; Cass. 10/468).

Da qui l’importanza di appurare, volta per volta, il tipo di donazione che ci si trova ad esaminare.

Casi tipici di donazione indiretta si hanno ad esempio in presenza di un’assunzione di un debito altrui realizzata per spirito di liberalità (Cass. 83/4618), o di una stipula di un contratto di assicurazione a favore del terzo sorretta da un intento liberale (Cass. 16/3263), oppure ancora in caso di adempimento del terzo a un’obbligazione altrui, accompagnato dalla rinuncia all’azione di regresso nei confronti del debitore (Cass. 69/1465).

E per quanto riguarda il conto corrente bancario cointestato, con facoltà di operare disgiuntamente?

È questo un negozio in forza del quale i soggetti correntisti possono disporre autonomamente delle somme presenti sul conto, ordinando all’istituto bancario coinvolto di eseguire movimentazioni che, con il tempo, concorrono progressivamente a formare un saldo attivo o passivo.

Per quanto concerne i rapporti con l’istituto bancario, l’art. 1854 c.c. prevede che gli intestatari del conto corrente sono solidalmente debitori e creditori del saldo del conto. Quindi, ciascuno dei correntisti può rivolgersi alla banca per ottenere l’adempimento dell’intera obbligazione creditoria derivante dai versamenti pregressi effettuati sul conto e, di contro, l’istituto bancario può pretendere da ciascuno dei cointestatari l’intero saldo delle passività maturate.

La disposizione in parola tuttavia non incide su quella che è l’effettiva titolarità delle somme presenti sul conto cointestato. Nei rapporti interni tra le parti, cioè, la facoltà di operare autonomamente con l’istituto bancario non muta l’originaria appartenenza delle somme depositate.

È vero però che l’art. 1298 c.c. stabilisce che, nei rapporti interni tra debitori e creditori solidali, l’obbligazione si divide tra questi in parti che si presumono uguali, salvo che non risulti diversamente. La norma configura cioè una presunzione semplice in merito alla contitolarità delle somme presenti sul conto corrente cointestato, determinando quindi un’inversione dell’onere della prova in capo al soggetto che deduce una realtà effettiva contrastante con la presunzione di cui all’art. 1298 c.c. La presunzione è superabile dando la prova (anche mediante ricorso a presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti) che le somme presenti sul conto appartengono ai cointestatari in misura diversa, o anche che siano di spettanza esclusiva di uno solo dei soggetti contitolari. Ed è proprio in quest’ultimo caso che entra in gioco la figura della donazione indiretta, essendo possibile considerare la cointestazione come uno strumento impiegato per perseguire una finalità liberale, cioè per porre determinati importi nella disponibilità dell’altro correntista (Cass. 12/6784; Cass. 10/468; Cass. 08/26983).

Affinché sia però possibile giungere a tale conclusione è necessario appurare che il beneficiante, al momento della cointestazione, non fosse mosso da altro scopo che quello della liberalità; è cioè necessario che il negozio giuridico realizzato sia sorretto dall’animus donandi del soggetto donante.

Ed è proprio su tale accertamento che interviene l’ordinanza in commento.

La Corte conferma infatti che la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, è qualificabile come donazione indiretta qualora detta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari, rilevandosi che, in tal caso, con il mezzo del contratto di deposito bancario, si realizza l’arricchimento senza corrispettivo dell’altro cointestatario. Il tutto a condizione, però, che fosse presente l’animus donandi, essendo cioè necessario accertare che il proprietario del denaro non avesse, al momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità (Cass. 13/26991; Cass. 12/6784; Cass.10/468; Cass.08/26983)

Il cointestatario che voglia sostenere l’esistenza di una donazione indiretta deve quindi dare la prova dell’esistenza, all’atto della cointestazione, dell’animus donandi. Ma in che modo?

Qui il discorso affrontato dalla S.C. si fa più interessante.

Nel caso di specie era avvenuto infatti che la Corte d’Appello avesse escluso la sussistenza, in capo a Caia, dell’animus donandi, sul rilievo, per un verso, che la mera cointestazione non costituisce prova della donazione di metà della somma e, per altro verso, che non sarebbe possibile provare l’animus donandi attraverso l’assunzione della prova testimoniale.

Il ragionamento della Corte d’Appello era stato il seguente: a) è vero che per la donazione indiretta non è necessaria la forma solenne dell’atto pubblico; b) è altresì vero però che è necessaria la forma del negozio utilizzato allo scopo di realizzare la liberalità; c) l’apertura di conto corrente, ai sensi dell’art. 117 d.lgs. n. 385/93 (T.U. Legge bancaria) deve essere fatta per iscritto; d) in conseguenza di ciò, anche la prova dell’animus donandi avrebbe dovuto essere data per iscritto, non per testimoni.

La S.C., nell’ordinanza in commento, interviene in relazione proprio a quest’ultimo punto, ritenendo non condivisibile l’assunto per cui l’animus donandi, ai fini della prova della sussistenza della donazione indiretta, dovrebbe emergere direttamente dal (diverso) atto scritto da cui tale liberalità risulta, perché è solo nella donazione diretta che l’animus donandi deve emergere direttamente dall’atto (pubblico) che la contiene.

Secondo la S.C., cioè, poiché che nella donazione indiretta la liberalità si realizza, anziché attraverso il negozio tipico di donazione, mediante il compimento di uno o più atti che, conservando la forma e la causa che è ad essi propria, realizzano, in via indiretta, l’effetto dell’arricchimento del destinatario, allora anche l’intenzione di donare deve emerge non già, in via diretta, dall’atto o dagli atti utilizzati, ma solo, in via indiretta, dall’esame, ovviamente rigoroso, di tutte le circostanze di fatto del singolo caso, nei limiti in cui risultino tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio da chi ne abbia interesse.

Da qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione con rinvio della sentenza d’appello, per un nuovo esame, ad altra sezione della medesima Corte d’Appello di Roma.