9 Maggio 2016

Anche per la rinuncia agli atti ci vuole la sentenza

di Giovanni Anania Scarica in PDF

Trib. Torino, 12 febbraio 2016 – Di Capua

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Procedimento civile – Rinuncia agli atti – Estinzione del giudizio – Provvedimento del giudice – Sentenza (C.p.c., artt. 306, 307, 279) 

Nelle cause pendenti innanzi al tribunale in composizione monocratica l’estinzione del giudizio per rinuncia agli atti deve essere dichiarata con sentenza 

CASO
Nel caso di specie le parti in causa dopo aver conciliato, in sede stragiudiziale, la lite pendente innanzi al tribunale monocratico (anziché disertare le udienze provocando l’estinzione ai sensi dell’art. 309 c.p.c.) chiedono al giudice, dando atto di aver trovato anche un accordo sulle spese, di estinguere il giudizio dichiarando, l’una (l’attore) di rinunciare agli atti e l’altra (il convenuto) di accettare la rinuncia avversaria.

Il problema che a questo punto si pone, nel silenzio dell’art. 306, co. 3, c.p.c. è la forma da dare al provvedimento che la dichiara.  

 

SOLUZIONE
Il Tribunale di Torino, ponendosi nel solco della giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr., da ultimo, Cass.12 febbraio 2016 n. 2837, nonché Cass. 15 marzo 2007 n. 6023; Cass. 10 ottobre 2006 n.  21707, Cass. 6 aprile 2006 n. 8041, Cass. 28 aprile 2004 n. 8092, Cass. 25 febbraio 2004 n. 3733, Cass. 22 ottobre 2002 n. 14889, tutte richiamate in motivazione) afferma che quando il giudice istruttore opera in funzione di giudice unico deve provvedere con sentenza.

In tal caso, infatti, non è applicabile, ai sensi del combinato disposto degli artt. 178 e 308 c.p.c., l’istituto del reclamo.

La sentenza che dichiara l’estinzione è invece soggetta ad impugnazione mediante la comune via dell’appello.

In buona sostanza, la sentenza è l’unica forma idonea al raggiungimento dello scopo del provvedimento in discorso, perché definisce il giudizio con una decisione, di rito, suscettibile di impugnazione.

La natura sostanziale di sentenza del provvedimento che dichiara l’estinzione del processo, in quanto idoneo a definire il giudizio, resta ferma, ai fini dell’impugnazione, anche qualora si sia erroneamente provveduto con ordinanza.

 

QUESTIONI
La forma da dare al provvedimento che dichiara l’estinzione del processo per rinuncia agli atti del giudizio muta, in una “girandola” di soluzioni, a seconda della struttura, monocratica o collegiale, dell’organo investito della decisione della causa. 

Ordinanza, reclamabile innanzi al collegio, se la causa pende innanzi al tribunale in composizione collegiale; sentenza, appellabile, nel caso in cui il processo destinato all’estinzione si celebri davanti al giudice monocratico.

Il dibattito ruota, dunque, intorno al regime di impugnazione del provvedimento.

Tutto sommato, un “falso problema”, considerando che, come ricordato anche dal Tribunale di Torino nella sentenza qui annotata, l’estinzione del giudizio pendente davanti al tribunale che giudica in composizione monocratica resta, per giurisprudenza consolidata, impugnabile con i mezzi di gravame ordinari, anche se dichiarata con ordinanza.

Né, d’altro canto, l’appello è coperto da una garanzia costituzionale che imponga una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 306, co. 3, c.p.c..

L’esigenza di non privare di un mezzo di gravame, diverso dal ricorso per cassazione, la parte in causa di fronte al giudice monocratico è imposta, semmai, dal principio di uguaglianza, visto e considerato il trattamento normativo riservato dall’art. 308, 1° co. c.p.c.  alla parte nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale.    

Occorre, peraltro, molta “fantasia casistica” per immaginare una ipotesi in cui sia ravvisabile un interesse ad impugnare (rilevante ex art. 100 c.p.c.) quale le parti siano entrambe d’accordo nel rinunciare al giudizio, e per di più, l’accordo sia stato trovato anche in punto spese.  

Ora, poiché l’ordinanza si lascia certamente preferire sotto il profilo dell’economia processuale (ex art. 134 c.p.c., infatti, le ordinanze sono solo succintamente motivate; inoltre non presuppongono una fase decisoria in senso proprio) il tema è il seguente: la soluzione, adottata dal Tribunale di Torino (certamente rispettosa dell’insegnamento dei giudici di legittimità) è l’unica possibile sotto il profilo della coerenza sistematica?

Sulla scorta delle modifiche introdotte al codice di rito dalla L. n. 29/2009, forse no.

Con la novella del 2009, infatti, il legislatore ha previsto tutta una serie di ipotesi (una per tutti: la dichiarazione di litispendenza) in cui il provvedimento del giudice deve assumere la forma di ordinanza (anziché di sentenza, come in precedenza) sebbene lo stesso abbia natura decisoria.

Pertanto, non “scardinerebbe” il sistema affermare, in via interpretativa, che l’estinzione del processo per rinuncia agli atti possa essere pronunciata, anche dal giudice monocratico, con una semplice ordinanza.

Tanto più in un caso, come quello in esame, in cui tra le parti vi è accordo anche in ordine alla compensazione delle spese di lite, e pertanto, il giudice non deve neppure pronunciare, dichiarando l’estinzione del processo, la condanna del rinunciante alla rifusione delle spese processuali.

Il vantaggio, in termini di speditezza processuale, della soluzione qui proposta è apprezzabile anche solo considerando il dispendio di energie profuso dal giudice torinese per la stesura dell’articolata sentenza in commento.   

Peraltro, allo stato, occorre prendere atto del diverso orientamento della prevalente giurisprudenza, anche di merito, sul punto (per i riferimenti si rinvia alla parte motiva dell’odierna sentenza) ed, in  particolare, deve tenerne conto il difensore che intende rinunciare agli atti del giudizio e richiedere al giudice adito la conseguente declaratoria, ovvero impugnare il relativo provvedimento.    

Può aggiungersi qui, per completezza di informazione, che il provvedimento con il quale, invece, il giudice nega l’estinzione perché irregolare,  ovvero rigetta l’eccezione di estinzione del processo, non essendo idoneo a definire il giudizio, ha natura (e forma) di ordinanza revocabile (cfr. Cass. 12 febbraio 2016 n. 2837).