27 Giugno 2017

Unioni civili e convivenze di fatto: le ricadute sull’impresa familiare

di Redazione Scarica in PDF

Le norme civilistiche che hanno ufficializzato le unioni civili e le convivenze di fatto non sembrano essere state opportunamente raccordate con la disciplina fiscale. In particolare, per le convivenze di fatto, è stato coniato un regime molto simile (ma non identico) all’impresa familiare che sembra non armonizzarsi appieno con l’articolo 5, Tuir. Diversamente, per le unioni civili sembra potersi giungere ad una “faticosa” applicazione per similitudine della facoltà di imputazione dei redditi per trasparenza. La novità della materia e l’assenza di chiarimenti fanno emergere anche problemi per la corretta gestione previdenziale ed assicurativa.

La L. 76/2016, c.d. Legge Cirinnà, ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano due nuovi concetti:

  1. l’unione civile (articolo 1, commi 2 e ss.): due persone maggiorenni dello stesso sesso costituiscono un’unione civile mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile e alla presenza di due testimoni. L’ufficiale di stato civile provvede alla registrazione degli atti di unione civile tra persone dello stesso sesso nell’archivio dello stato civile. In particolare, al comma 20 viene precisato che “al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”;
  2. la convivenza di fatto (articolo 1, commi 36 e ss.): si intendono per “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile. I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza. Il contratto, le sue modifiche e la sua risoluzione sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico. Ai fini dell’opponibilità ai terzi, il professionista che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al D.P.R. 223/1989.

L’articolo 1, comma 46, della richiamata legge prevede l’introduzione nel codice civile di un nuovo articolo 230-ter che segue immediatamente la disposizione relativa all’impresa familiare. La norma dispone che “al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.

Si tratta di comprendere se tale ultima disposizione possa prevedere analoghi effetti fiscali rispetto a quelli dell’impresa familiare.

L’impresa familiare nella normativa fiscale: cenni

Il comma 4 dell’articolo 5, Tuir prevede che “I redditi delle imprese familiari di cui all’articolo 230-bis, cod. civ., limitatamente al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”.

Il successivo comma 5 precisa anche che “si intendono per familiari, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado”.

Aggiunge la stessa norma che l’imputazione si applica a condizione che:

  1. i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti;
  2. la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo d’imposta;
  3. ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.

L’impresa familiare e l’unione civile

Abbiamo già sopra evidenziato in premessa che l’articolo 1, comma 20, L. 76/2016 prevede che “al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole ‘coniuge’, ‘coniugi’ o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.

Si potrebbe allora concludere che, ove le norme fiscali sulla impresa familiare richiamino la posizione del coniuge, alla medesima possa essere sostituito quello di parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.

È stato anche osservato che il richiamato comma 20 precisa altresì che “La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente Legge”.

Il percorso si fa tortuoso, e bisogna tornare a considerare il precedente comma 13 (ove si indica che, in mancanza di diversa pattuizione, il regime naturale è quello della comunione) ove si prevede che “Si applicano le disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV, V e VI del Capo VI del Titolo VI del libro primo del codice civile”. Nella sezione VI si trova collocato l’articolo 230-bis in tema di impresa familiare.

In tal modo, si riuscirebbe a giungere ad ottenere gli stessi effetti fiscali normalmente associati a quelli dell’impresa familiare applicata alla famiglia “canonica”, con la sola avvertenza che:

  • tenuto conto che l’unione civile può essersi ufficializzata a decorrere dal 2016;
  • la ripartizione degli utili sul versante fiscale richiede che l’atto di impresa familiare sia ufficializzato nel periodo di imposta precedente (tranne nel caso in cui si provvedesse alla formalizzazione nel corso del 2016, ma solo in occasione dell’apertura della partita Iva del titolare);
  • il fenomeno potrà maggiormente interessare le dichiarazioni dei periodi di imposta 2017 e ss..

Il convivente di fatto che lavora nell’impresa dell’altro convivente

Se, nelle unioni civili, le conseguenze fiscali possono essere ricavate per “sostituzione dei termini”, così non sembra potersi fare per le convivenze di fatto.

Qui, infatti, il Legislatore ha preferito normare specificamente le conseguenze con l’inserimento di uno specifico articolo del codice civile, il 230-ter.

Nel passato, la giurisprudenza si era occupata della possibile assimilazione tra familiare e convivente.

Nella sentenza n. 4204/1994, la Cassazione ebbe modo di affermare che “… elemento saliente dell’impresa familiare e della sua disciplina non è l’apporto lavorativo, che è ravvisabile in qualunque rapporto di lavoro, né i legami affettivi, ma la famiglia in senso chiaro e legittimo individuata nei più stretti congiunti. Per cui un’equiparazione fra moglie e convivente urta contro la totale differenziazione fra dette due figure, la prima essendo l’unica riconosciuta, a tutt’oggi, dal diritto. Non vi è possibilità di assimilazione di sorta fra matrimonio e convivenza more uxorio, in quanto concetti del tutto antitetici”.

La configurazione della nuova norma, peraltro, non risulta ricalcare quella dell’impresa familiare, come si può notare dalla contrapposizione dei testi normativi.

230–bis “impresa familiare” 230–ter “diritti del convivente”
Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare:

· ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia;

· e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato

Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta:

· una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato

  Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato
Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa  
I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi  
Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo  
Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo  
Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i partecipi. Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell’azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice  
In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda i partecipi di cui al primo comma hanno diritto di prelazione sull’azienda. Si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disposizione dell’articolo 732  
Le comunioni tacite familiari nell’esercizio dell’agricoltura sono regolate dagli usi che non contrastino con le precedenti norme  

Una prima logica conseguenza di tale impostazione potrebbe essere ricavata dalla impossibilità di applicare le regole dell’articolo 5, Tuir, che richiama esplicitamente l’impresa familiare di cui all’articolo 230-bis, al caso dei diritti del convivente.

Che ciò sia un effetto voluto, ovvero una semplice distrazione, ad oggi non è dato sapere.

In ogni caso, si può riscontrare che:

  • in entrambi i casi è richiesta una sorta di stabilità del rapporto, sia pure se nell’art. 230-ter c.c. ci si riferisce solo a una prestazione “stabile”, mentre nell’articolo 230-bis, cod. civ. a una prestazione “continuativa” (in ogni caso, nemmeno nell’impresa familiare era richiesta la presenza totalizzante, sia pure se deve essere escluso lo svolgimento di altra attività professionale);
  • in entrambi i casi viene attribuita al soggetto una partecipazione agli utili, con ciò evocando una situazione di possibile assimilazione nella situazione di base;
  • nell’articolo 230-bis la “remunerazione” viene parametrata alla qualità ed alla quantità del lavoro prestato, mentre nel 230-ter si parla genericamente di partecipazione commisurata … al lavoro prestato;
  • nella nuova norma manca il riferimento al diritto al mantenimento, così come si dà rilevanza esclusiva al lavoro prestato nell’impresa e manca il riferimento a quello prestato nella famiglia;
  • manca la previsione, nella nuova norma, di qualsiasi riferimento alla modalità di assunzione delle decisioni, che sembrano materia di esclusiva pertinenza del titolare.

In definitiva, nell’assenza di una presa di posizione ufficiale, ci si trova dinnanzi alla seguente situazione:

  1. la norma prevede un diritto alla partecipazione agli utili, escluso il caso in cui sussista un rapporto societario o di lavoro subordinato (supposto che si possa configurare la subordinazione);
  2. poiché la norma evoca un diritto alla partecipazione, senza necessità di accordo specifico, sembra doversi escludere il caso dell’associazione in partecipazione, tenuto anche in considerazione il fatto che la medesima non è più configurabile in caso di apporto di solo lavoro da parte di una persona fisica;
  3. qualora si voglia attribuire rilevanza fiscale alla casistica in analisi, non resterebbe che qualificare le somme come utili di partecipazione al reddito d’impresa.

Tale ultima conclusione non può darsi per scontata, specialmente in assenza di una conferma ufficiale che, peraltro, stante l’attuale tenore della norma non pare neppure pacifica.

Infatti, mancherebbero per lo specifico istituto le cautele imposte dal comma 4 dell’articolo 5, Tuir, a partire dall’obbligo di imputazione massima del 49%, per giungere sino agli altri requisiti di risultanza da atto pubblico o scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo di imposta, ovvero di attestazione della continuatività e prevalenza del lavoro nel periodo di imposta.

Ove si ritenesse che tali circostanze rappresentino uno scoglio invalicabile, non resterebbe che concludere per una irrilevanza di tali somme, sia in capo al soggetto erogante, sia in capo a quello percipiente; ma anche tale conclusione diverrebbe ostica, in quanto paragonabile alla posizione delle somme corrisposte al coniuge dipendente (ove si verificasse la subordinazione), in aperto contrasto con quanto affermato dalla norma, applicabile proprio qualora la dipendenza non ricorra.

Non ultimo, risulta anche incerta la posizione ai fini previdenziali e assistenziali della parte della convivenza di fatto; infatti, la situazione sostanziale determina l’erogazione di una prestazione lavorativa che sembrerebbe avere tutti i connotati per richiedere l’iscrizione all’Inps e all’Inail, secondo la vigente normativa di settore.

Anche su tale aspetto, tuttavia, l’assenza di chiare indicazioni operative (che, si crede, dovranno essere opportunamente raccordate con i chiarimenti fiscali) può ingenerare più di un dubbio negli operatori.

Affinché la riforma possa allora dirsi completa, è auspicabile che si provveda a dissipare le nebbie.

Articolo tratto dalla Rivista Euroconference “La rivista delle operazioni straordinarie”