4 Dicembre 2018

Trasformazione da S.r.l. in S.p.A. : diritto di recesso. Regole della “partenza” o dell’“arrivo”?

di Gian Luca Grossi - Studio Pirola Pennuto Zei & AssociatiMarcello Guerzoni - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati Scarica in PDF

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, sentenza 19 giugno 2018 n. 28987 pubblicata il 12 novembre 2018

Parole chiave: trasformazione societaria – trasformazione omogenea – disciplina applicabile al recesso – recesso S.r.l. – recesso S.p.A. – termine di esercizio del recesso – applicazione analogica

“Anche in caso di trasformazione da società a responsabilità limitata a società per azioni, la disciplina del diritto di recesso applicabile ai soci a seguito della trasformazione è quella dettata dall’art. 2473, primo comma, c.c. per le s.r.l., che non prevede termini di decadenza. Pertanto, in detta ipotesi, il diritto di recesso del socio di s.r.l. trasformata in s.p.a. va esercitato nel termine previsto nello statuto della s.r.l., prima della sua trasformazione in s.p.a., e, in mancanza di detto termine, secondo buona fede e correttezza, dovendo il giudice del merito valutare di volta in volta le modalità concrete di esercizio del diritto di recesso e, in particolare, la congruità del termine entro il quale il recesso è stato esercitato, tenuto conto della pluralità degli interessi coinvolti.”

Disposizioni applicate: artt. 2499 e seguenti c.c.; artt. 2437 e seguenti c.c.; art. 2473 c.c. e art. 12 preleggi.

La Corte di Cassazione con la sentenza in commento torna ad occuparsi del tema del recesso del socio nella S.r.l., da sempre oggetto di accese dispute, tuttora irrisolte, nonostante la riforma del 2003.

Il recesso, previsto in ambito civilistico, è invero un negozio giuridico unilaterale e recettizio che consente al recedente di risolvere il rapporto contrattuale in corso (diritto potestativo), onde produttivo di effetti dalla data della comunicazione al soggetto destinatario.

In ambito strettamente societario, inoltre, l’esercizio del diritto potestativo di recesso si connota di un ulteriore elemento, poiché la volizione del recedente è risolutivamente condizionata, ex lege, alla revoca della delibera che lo legittima ovvero alla messa in liquidazione della società, e ciò deriva dalla natura stessa degli interessi coinvolti non solo individuali, ma “corporativi” (societari).

Dal momento in cui il recesso diviene efficace i diritti sociali connessi alla partecipazione per la quale è stato esercitato sono sospesi, conservando il socio recedente esclusivamente la titolarità formale della partecipazione finalizzata alla liquidazione della stessa (al “valore di mercato al momento della dichiarazione”).

Nel sistema societario al recesso è assegnata quindi la funzione di mezzo di tutela principale e privilegiato del socio, in particolare di quel socio di minoranza dissenziente o astenutosi in occasione della votazione di una delibera considerata lesiva di rilevanti interessi individuali, costituenti causa di recesso (nel nostro caso la trasformazione della società).

Nella fattispecie si poneva il problema della tardività o meno del recesso esercitato da due soci a seguito della delibera di trasformazione di una società da S.r.l. in S.p.A..

Sia i Giudici di primo grado sia quelli dell’appello avevano infatti rigettato il ricorso proposto dalla società diretto a far rilevare la illegittimità del recesso esercitato da due soci (in quanto tardivo), ritenendo, per converso, congruo il termine di esercizio del recesso da parte dei soci. La società, in particolare, affermava che al recesso dovesse applicarsi la disciplina della società d’arrivo (S.p.A.).

In proposito ricorda la Prima Sezione della Corte di Cassazione, in commento, come la riforma del diritto societario del 2003 (D.Lgs. n. 6/2003) abbia modificato alle radici il tipo sociale della S.r.l., svincolandola dal suo ruolo “ancillare” rispetto alla S.p.A., dotandolo di un autonomo ed organico complesso di norme, modellato secondo il principio della centralità della figura del socio e della più ampia autonomia statutaria, seppure nel rispetto della garanzia della responsabilità limitata per le obbligazioni sociali.

Sulla base di tali principi anche l’istituto del recesso è stato profondamente rivisitato si è passati da un rinvio alle norme in tema di S.p.A. (art. 2494 c.c. ante riforma); ad una più completa regolamentazione con la previsione di una disciplina ad hoc (art. 2473 c.c.) che si affida all’autonomia negoziale dei soci nel contratto sociale L’atto costitutivo determina quando il socio può recedere dalla società e le relative modalità”, il quale può prevedere cause di recesso ulteriori e convenzionali.

La ratio è evidente ed è quella di tutelare con maggior vigore l’interesse “personalistico” del socio al disinvestimento, rispetto a quello “capitalistico” predominante e caratterizzante le S.p.A..

E’ bene tuttavia ricordare come nella prassi capita sovente di leggere clausole di recesso statutarie di S.r.l. che fanno rinvio alle norme in tema di S.p.A. (si pensi ai criteri di determinazione della quota di liquidazione del recedente che hanno una più completa disciplina nell’art. 2437 ter), risultando quindi in qualche modo ridotta la portata innovativa della specifica disciplina.

La pronuncia in commento pone in particolare due ordini di problemi all’interprete.

Il primo può sintetizzarsi nei seguenti termini, ovvero se in caso di trasformazione la disciplina del recesso applicabile sia quella della società di partenza (S.r.l.) oppure della società d’arrivo (S.p.A.).

Risolto tale problema (che potremmo definire pregiudiziale) occorre poi chiedersi se in caso di silenzio dello statuto della S.r.l. in ordine alle modalità ed ai termini di esercizio, possano trovare applicazione, per analogia, i principi dettati in tema di S.p.A., anche a seguito della riforma del 2003.

Il ragionamento della Prima Sezione si snoda in maniera piuttosto chiara e logica e si basa sull’assunto che della inammissibilità post riforma di un’interpretazione analogica della disciplina prevista per le S.p.A. (art. 2437 bis c.c. termini e modalità di esercizio).

In primo luogo,sia sulla base del tenore letterale dell’art. 2473 comma 1 c.c. nel quale si prevede che “in ogni caso, il diritto di recesso compete ai soci che non hanno consentito al cambiamento dell’oggetto o del tipo di società” indicando in tal modo che la disciplina applicabile in caso di trasformazione non può che essere quella della società ante trasformazione (n.d.r.: s.r.l.), sia  sulla base della ratio legis, in quanto sarebbe contraddittorio, nonché contrario alla buona fede, applicare la nuova disciplina imponendo al socio dissenziente che ha diritto al recesso di esserne comunque assoggettato”.

In secondo luogo il fatto che l’art. 2473 c.c., non preveda expressis verbis un termine per esercitare il diritto di recesso, per il caso in cui lo statuto o l’atto costitutivo nulla dispongano sul punto, non costituisce, come sostenuto dal ricorrente, una lacuna normativa da colmare facendo ricorso all’analogia legis, ai sensi dell’art. 12 preleggi. Infatti, non è più possibile affermare che il recesso nella s.r.l. risponda alla medesima ratio del recesso nella s.p.a. e ciò trova conferma, su un piano particolare, nel fatto che il legislatore della riforma abbia introdotto una norma nuova ed autonoma e, su un piano generale e sistematico, nella forte personalizzazione che colora il tipo s.r.l.”.

In terzo luogo, nel silenzio dell’atto costitutivo, il rinvio alla disciplina in tema di S.p.A. (art. 2437 bis) costituirebbe una violazione della buona fede nella esecuzione del contratto di società assumendo “i caratteri di una applicazione analogica in malam partem, in ragione dei ridotti termini previsti dalla norma”.

I Giudici della Prima Sezione hanno così ritenuto prevalente, nel silenzio dell’atto costitutivo, in ordine ai termini e modalità del recesso, il ricorso “ai principi propri del diritto comune circa l’interpretazione e l’esecuzione dei contratti secondo buona fede ai sensi degli artt. 1366 e 1375 c.c., principi che operano anche come fonti di integrazione della regolamentazione contrattuale” (cd. buona fede integrativa).

In proposito la Corte precisa come la buona fede integrativa imponga che nella valutazione di un termine per l’esercizio del recesso congruo “si dovranno bilanciare le esigenze di certezza della società (…) con le esigenze dei soci di minoranza, e dunque rifuggendo termini di recesso così brevi tali da rendere eccessivamente oneroso l’esercizio del diritto”.

Osserva conclusivamente la Prima Sezione come “il limite di tempo per il suo esercizio dovrà essere calibrato sulla specificità del caso concreto, evitando ingiustificati effetti dilatori che si risolverebbero in un pregiudizio per la società”.

Alla luce di tali principi la Prima Sezione di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla società.

A ben vedere il principio espresso nella pronuncia in commento, seppure ampiamente condivisibile dal punto di vista dell’argomentazione logica, concede alla mera astrazione giuridica uno spazio che finisce in un qualche modo per comprimere il principio di certezza del diritto, laddove è stato sostituito un termine cha ante riforma era certo, con una “valutazione di congruità, caso per caso, alla luce della buona fede e correttezza integrativa, tenuto conto della pluralità degli interessi coinvolti”.