26 Luglio 2016

Il termine lungo per impugnare le sentenze della Cassazione per errore di fatto revocatorio è di un anno dalla pubblicazione del provvedimento

di Fabio Cossignani Scarica in PDF

Cass., sez. VI-1, 31 marzo 2016, n. 6308

Impugnazioni – Errore di fatto – Revocazione dei provvedimenti della Cassazione – Termine lungo di impugnazione annuale ex art. 391 bis c.p.c. –  Operatività – Applicazione del termine lungo semestrale ex art. 327 c.p.c. – Esclusione (Cod. proc. civ., art. 391 bis)

Fallimento –  Trasformazione di una società di persone in società di capitali – Fallimento del socio illimitatamente responsabile – Termine annuale dalla trasformazione – Deroga in caso di mancato consenso dei creditori – Insussisenza (l.  fall., art. 147, co. 2)

Impugnazioni – Ricorso per revocazione fondato su interpretazione capziosa del provvedimento impugnato – Interpretazione delle norme manifestamente erronea – Condanna del ricorrente ex art. 96, co. 3, c.p.c. (Cod. proc. civ., art. 96, co. 3)

[1] L’art. 391 bis c.p.c. fissa ancor oggi in un anno il termine lungo per impugnare con revocazione ordinaria le pronunce della Corte di cassazione. Atteso il suo carattere eccezionale, ex art. 14 preleggi, esso non può ritenersi inciso dalla modifica apportata dalla l. n. 69 del 2009, art. 46, co. 17, alla norma generale di cui all’art. 327 c.p.c., co. 1, con la quale è stato dimidiato il termine lungo per proporre le impugnazioni ordinarie, né è suscettibile di interpretazione analogica.

[2] Decorso un anno dall’iscrizione della trasformazione di società di persone in società di capitali nel registro delle imprese, non può più essere dichiarato il fallimento del socio già illimitatamente responsabile.

[3] Se l’impugnazione è fondata su un’interpretazione capziosa della testo del provvedimento impugnato per errore di fatto revocatorio e su una tesi manifestamente contrastante con una disposizione di chiara lettura, il ricorrente va condannato ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c. al pagamento di una somma equitativamente determinata, specie ove si tratti di una parte, come il curatore fallimentare, la cui attività è sottoposta alla vigilanza del giudice.

(massime non ufficiali)

CASO

[1] [2] [3] Il Tribunale aveva dichiarato il fallimento in estensione del socio accomandatario di una società in accomandita semplice trasformatasi da più di un anno in società a responsabilità limitata.
La decisione, confermata poi in appello, si basava sul disposto dell’art. 2500 quinquies c.c., in virtù del quale la trasformazione, se avvenuta senza il consenso dei creditori (art. 2500 quinquies c.c.), non libera i soci illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali pregresse. Da tale disposizione i giudici di merito hanno tratto la conseguenza che il mancato consenso rende legittima la dichiarazione di fallimento in estensione del socio illimitatamente responsabile anche oltre l’anno dalla trasformazione.
La Suprema Corte, accogliendo il ricorso di uno dei soci, aveva cassato la decisione. Secondo la Cassazione era irrilevante la sussistenza o meno del consenso dei creditori alla trasformazione, perché la dichiarazione di fallimento in estensione era in ogni caso impedita dal fatto che era ormai trascorso più di un anno dalla iscrizione della trasformazione (fatto, nella specie, pacifico) (art. 147 l. fall.).
Il Fallimento impugnava per revocazione, ex art. 391 bis c.p.c., la sentenza della Corte, proponendo il ricorso quando erano già trascorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza.
La società ricorrente chiedeva la revocazione sostenendo che la stessa era da considerarsi «disancorata dai fatti». Nella specie, la ricorrente denunciava l’erroneità della decisione, affermando che la Corte si era basata sull’errata presupposizione che il fallimento del socio fosse stato ingiustamente dichiarato perché concernente obbligazioni maturate dopo la trasformazione della società, quando al contrario il fallimento derivava da obbligazioni inadempiute e anteriori alla trasformazione.

SOLUZIONE

[1] La Corte, preliminarmente, ha dichiarato tempestivo il ricorso per revocazione promosso quando erano trascorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza di cassazione, ma comunque prima di un anno dalla stessa.
Osserva, infatti, che l’art. 391 bis c.p.c. prevede ancora oggi il termine di un anno per la proposizione dell’impugnazione. Tale termine, in quanto eccezionale, non può ritenersi implicitamente abrogato dalla riduzione a 6 mesi del termine lungo per proporre i mezzi di impugnazione ordinari, operata dalla legge n. 69/2009 mediante la novella dell’art. 327 c.p.c.

[2] Nel merito, la Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile (recte, manifestamente infondato). Il giudice della sentenza impugnata non aveva infatti dato alcun peso alla collocazione temporale delle obbligazioni (anteriori o successive alla trasformazione), essendosi limitato ad applicare in maniera corretta il chiaro art. 147 l. fall. a una fattispecie in cui la dichiarazione di fallimento era intervenuta oltre l’anno dall’iscrizione della trasformazione della società.

[3] Sotto il profilo delle spese, è stata poi fatta applicazione dell’art. 96, co. 3, c.p.c., ritenendo che l’interpretazione data dal ricorrente al testo della sentenza fosse capzioso, e il ricorso basato su di una lettura degli artt. 2500 quinquies c.c. e 147 l. fall. manifestamente contraria al tenore letterale delle due disposizioni. Circostanze, queste, considerate dalla Corte particolarmente gravi, anche in considerazione del fatto che il ricorso era stato proposto da un soggetto qualificato, come il curatore del fallimento, il cui operato è sottoposto alla vigilanza del giudice delegato.

QUESTIONI

[1] L’art. 391 bis c.p.c. deve essere inteso quale norma a carattere eccezionale, non analogicamente applicabile alle altre fattispecie di revocazione ordinaria, e tale da escludere l’operatività del termine semestrale di decadenza dall’impugnazione di cui all’art. 327 c.p.c. In dottrina non mancano tuttavia indicazioni di senso contrario (v. Consolo-Parisi, Sub art. 391 bis c.p.c., in Codice di procedura civile, diretto da Consolo, Milanofiori-Assago, 2013, 1213).
La quaestio nasce all’evidenza da una svista del legislatore che, nel dimidiare i termini annuali per impugnare, non si è avveduto del fatto che anche l’art. 391 bis c.p.c. fissa un termine lungo di un anno.

[2] Quanto all’interpretazione dell’art. 147 l. fall., l’ordinanza intestata appare ineccepibile, anche alla luce del chiaro disposto di legge. Viceversa, stupisce che ben due giudici di merito ne abbiano fornito una lettura tanto diversa. Infatti, un conto è la liberazione dalle obbligazioni anteriori alla trasformazione regolata dall’art. 2500 quinquies c.c.; altro è invece la disciplina temporale della fallibilità in estensione dei soci.

[3] La sentenza in questione rimarca infine il comportamento inescusabile del curatore che non poteva ignorare il disposto dell’art. 147, co. 2, l. fall., anche a seguito della sentenza del giudice delle leggi, n. 319 del 7 luglio 2000, con la quale ne era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., «nella parte in cui prevedeva che il fallimento dei soci illimitatamente responsabili di società fallita potesse essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi avevano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata».
La decisione, sul punto, fa applicazione dell’art. 96, co. 3, c.p.c., in maniera, a nostro avviso, corretta.
Infatti, la tesi del curatore poteva ancora considerarsi un legittimo esercizio del diritto di difesa nel precedente giudizio di cassazione, quando era interesse della parte resistere contro un’impugnazione volta all’annullamento di una sentenza di appello che si era espressa in maniera conforme a tale tesi. La sua pretestuosità appariva invece manifesta nella successiva impugnazione per revocazione; revocazione, tra l’altro, proposta ex art. 391 bis c.p.c. contro un provvedimento che appariva all’evidenza esente da errori di fatto.
L’art. 96, co. 3, c.p.c., se maneggiato con sapiente ponderazione (cfr. Cass., 17 luglio 2015, n. 15030), è strumento idoneo a porre rimedio contro l’uso distorto dei mezzi di difesa. Si auspica quindi una sua più frequente applicazione anche davanti ai giudici di merito.