24 Luglio 2018

Sull’onere di prendere posizione sui fatti ex adverso dedotti: economia processuale o giustizia della decisione?

di Roberta Brignoccolo Scarica in PDF

Cass. civ., Sez. III, ord. 27 marzo 2018, n. 7513, Pres. Travaglino, Est. Rossetti

Prova nel giudizio civile – Poteri del giudice – Onere di prendere posizione sui fatti dedotti da parte avversa – Principio di non contestazione (Cost., art. 111; cod. proc. civ., artt. 88, 115, co. 1, 116, co. 2, 167, co. 1, 416, co. 3; cod. civ., artt. 2697, 2698; l. 18.6.2009, n. 69, art. 45; c.p.a., art. 64, co. 2 e 4)

[1] Nell’ipotesi in cui, proposta domanda risarcitoria dalla vittima di un sinistro stradale, la società assicuratrice convenuta, in sede di primo grado di giudizio, non abbia disconosciuto la sussistenza del danno patrimoniale da lucro cessante (nel caso di specie, l’assicuratore aveva ritenuto insignificante il danno nella comparsa di risposta, espressamente ammettendo lo stesso nella comparsa conclusionale), risulta non corretta la statuizione del secondo grado, laddove ha considerato non provata l’esistenza del lamentato pregiudizio.

CASO

[1] P.C. rimase ferito a causa di un sinistro stradale, avvenuto mentre era trasportato su di un veicolo di proprietà della società X, condotto da B.A. ed assicurato contro i rischi della circolazione dalla società Y.

Convenendo dinanzi al Tribunale la società X, B.A., e la società assicuratrice Y, P.C. lamentava la corresponsione di una somma inferiore rispetto al risarcimento dovutogli da parte della società Y, stante la riduzione del reddito mensile percepito, conseguentemente chiedendo il risarcimento del danno patrimoniale in misura corrispondente.

Si costituiva la società Y, deducendo come la differenza tra il reddito percepito dalla vittima prima del sinistro e quello percepito in seguito non fosse «significativa e sostanziale», dovendo, altresì, tenersi nella debita considerazione la rendita erogata al P.C. dall’Inail.

Nella comparsa conclusionale, depositata nel primo grado di giudizio, la società Y così deduceva: «il danno patrimoniale (da lucro cessante) richiesto in Euro 308.355,6 nell’atto introduttivo, è nettamente inferiore», seguitando con l’elencazione dei redditi dichiarati da parte attrice nonché di alcune buste-paga dalla stessa depositate. Concludeva, pertanto, rilevando la spettanza, a titolo di danno patrimoniale, della somma di Euro 54.618,20.

Il Tribunale del primo grado accolse la domanda attorea. Viceversa, la Corte d’appello, accogliendo il gravame proposto dalla società Y, rigettò la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante, ritenendola non provata.

Il P.C. proponeva ricorso per cassazione, al primo motivo denunciando la violazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per avere il Giudice delle seconde cure rigettato la domanda di risarcimento del danno patrimoniale nonostante la società Y, nella comparsa conclusionale depositata in primo grado, avesse abbandonato l’originaria contestazione relativa all’an del danno patito, formulata nella comparsa di risposta, appuntandosi unicamente sul quantum dello stesso.

SOLUZIONE

[1] La Corte di Cassazione, qualificando la condotta processuale tenuta dalla società Y nella comparsa conclusionale «concludente, incompatibile con la volontà di negare l’esistenza del danno», considerò quest’ultima non contestata, dando quindi per ‘abbandonata’ la relativa contestazione, con conseguente non riproponibilità in appello della medesima. Concludeva sul punto cassando con rinvio la pronuncia di secondo grado al fine della liquidazione ex novo del danno patrimoniale da lucro cessante.

QUESTIONI

[1] L’ordinanza in commento si innesta su di una questione spinosa, ossia la (ir)reversibilità della contestazione tempestiva di un fatto ad opera di una delle parti nella dinamica processuale, nonché gli effetti della stessa in punto di valutazione giudiziale delle prove già trasfuse in atti.

La Corte di cassazione, ritenendo l’ammissione, da parte della società assicuratrice, dell’an del risarcimento, in tutto equiparabile alla non contestazione, ha fatto proprio il principio sancito dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 761 del 23 gennaio 2002, secondo cui i fatti non contestati devono ritenersi certi dal giudice, «senza nessuna possibilità di andare in contrario avviso».

In disparte le critiche mosse, da autorevole dottrina, a quest’ultima ricostruzione giurisprudenziale, pare opportuno procedere con ordine, analizzando, anzitutto, i tre concetti di “allegazione”, “contestazione” e “ammissione” dei fatti di causa, al fine di coglierne eventuali affinità e differenze.

Per allegazione si intende – come è noto – la formulazione, in termini descrittivi, di un enunciato concernente l’esistenza di un determinato fatto, compiuta da una parte. Così qualificata, l’allegazione non possiede attributi di verità, caratterizzandosi per un ontologico status di incertezza.

Allo stesso modo, la contestazione consiste in un enunciato, avente la medesima valenza epistemica, ma di segno opposto.

L’ammissione, viceversa, si sostanzia nell’allegazione dello stesso fatto anche da parte del convenuto.

Le tre situazioni sono quindi riconducibili a mere ipotesi di parte, che, nel passaggio dalla realtà materiale a quella processuale, necessitano di essere provate, al fine di raggiungere l’obiettivo precipuo di ogni “giusto processo”, ossia l’accertamento della verità.

Qualora all’allegazione attorea segua la contestazione di parte avversa, il fatto allegato e contestato dovrà entrare nel thema probandum, all’uopo applicandosi le regole di cui all’art. 2697, co. 1 e 2, c.c., ai sensi del quale «1. chi vuol far valere un diritto in giudizio, deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. 2. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda».

Pertanto, nell’ipotesi (oggetto della pronuncia de qua) in cui il convenuto – che, nella prima difesa utile, aveva contestato il fatto allegato – dovesse, successivamente, ammettere quest’ultimo, le prove prodotte dalle parti risulterebbero già agli atti di causa: dovendo il giudice decidere secundum alligata, ci si chiede se possa, effettivamente, prescindere da una valutazione dell’impianto probatorio delle stesse, già emergente ex actis.

Ora, circa l’efficacia di una non contestazione successiva alla originaria contestazione, potrebbero aprirsi per l’interprete due strade.

La prima si appunta sulla negazione della possibilità di revoca della contestazione originaria ad opera di un successivo comportamento processuale di segno contrario. Seguendo tale impostazione, la contestazione originaria attiverebbe necessariamente il meccanismo di cui all’art. 2697, c.c., imponendo all’attore la produzione di quanto a sostegno della sua pretesa.

Invero, la soluzione prospettata risulta di incerta compatibilità con la natura dispositiva del processo (vieppiù confermata dalla facoltà delle parti di rinunciare, in primo grado, a domande ed eccezioni).

Ove, invece, si ritenga operante la non contestazione dei fatti ex adverso dedotti in via postuma rispetto al primo atto depositato in giudizio dalla parte, occorre necessariamente operare un ulteriore distinguo.

Nell’assenza di prova del fatto costitutivo, nonché di prova contraria dello stesso, la non contestazione opererà a vantaggio dell’attore, esonerando quest’ultimo dall’onere su di lui incombente ai sensi dell’art. 2697, c.c..

Viceversa, qualora risulti agli atti la prova contraria del fatto pregiudizievole, non potrà all’uopo invocarsi l’art. 115, c.p.c., a meno di non voler, così facendo, pregiudicare l’esigenza primaria della verità processuale.

Difatti, se l’accertamento della verità obiettiva dei fatti costituisce la condizione necessaria affinché una decisione possa dirsi “giusta”, in ossequio all’art. 111 Cost. (per tutti, Chiarloni, Giusto processo, garanzie processuali, giustizia della decisione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, 144 ss.), qualunque limite ad esso apposto conduce ad un inevitabile e corrispondente difetto di legalità e giustizia della decisione.

Lo stesso qualora, come nel caso di specie, si equipari l’ammissione alla non contestazione. L’art. 115, c.p.c., trattando della “disponibilità delle prove”, non si riferisce alla verità storica dei fatti da provare. In altri termini, la realtà materiale, per definizione ontologicamente indisponibile, non può rientrare nell’ambito di applicazione del principio dispositivo: disponibile è sempre e soltanto il mezzo di prova, mai la realtà ontologica del fatto da provare.

La fictio iuris, operata tramite la qualificazione come “pacifici” dei fatti non contestati ovvero ammessi, se funzionale, in un’ottica di economica processuale, rimane pur sempre un espediente, inidoneo a raggiungere il fine della verità. Gli enunciati formulati nel processo, adottando tale regola processuale, restano confinati nella provvisorietà, pena l’adesione a concezioni consensualistiche della verità o alle teoriche tedesche sviluppatesi attorno al § 138, III, Z.P.O. (secondo cui «I fatti che non sono esplicitamente contestati devono essere considerati come ammessi, a meno che l’intenzione di contestarli non emerga dalle altre dichiarazioni della parte»).

Il convincimento del giudice in sede di decisione finale circa la verità dell’enunciato che descrive il fatto, in base all’esito delle prove, è l’unica via utile all’accertamento della verità obiettiva, solo così risolvendosi l’incertezza. Il bilanciamento tra giustizia della decisione ed esigenze di semplificazione e ragionevole durata del processo, attuato attraverso la relevatio ab onere probandi, potrà forse impedire il prudente apprezzamento giudiziale degli elementi probatori comunque trasfusi in atti e tali da inficiare l’esistenza del fatto stesso? (v., in proposito, Cass., Sez. III, 13 marzo 2012, n. 3951).

Per ulteriori approfondimenti sul tema: Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari, 2009, 122 ss.; Id., Verità negoziata?, in Riv. trim. dir. proc. civ., supplemento n. 3 Accordi di parte e processo, 2008, 69 ss.; Id., Commento all’art. 115, c.p.c., in Commentario del Codice di Procedura Civile, a cura di Chiarloni, Poteri del giudice, Bologna, 2011, 447 ss.; Carratta, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano, 1995, 259 ss.; Comoglio, Commento all’art. 115, c.p.c., in Commentario del codice di procedura civile, II, diretto da Comoglio, Consolo, Sassani, Vaccarella, Torino, 2014, 385 ss.; Romano, La “non contestazione” nel processo amministrativo, Torino, 2016.