22 Maggio 2018

Sulla (ritrovata) proponibilità della domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento presupposto

di Giacinto Parisi Scarica in PDF

Corte cost. 26 aprile 2018, n. 88

[1] Diritti politici e civili – Ragionevole durata del processo – Domanda di equa riparazione – Pendenza del procedimento presupposto – Improponibilità – Illegittimità costituzionale – Sussiste (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, artt. 6, paragrafo 1°, 13; Cost., artt. 3, 111, 117; l. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4)

[1] L’art. 4 l. 89/2001, per come sostituito dall’art. 55, comma 1°, lett. d), d.l. 83/2012, convertito, con modificazioni, nella l. 134/2012, è incostituzionale nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto.

CASO

[1] Con quattro ordinanze di analogo tenore (depositate, rispettivamente, in data 10 dicembre 2016, 20 dicembre 2016, 23 gennaio 2017 e 16 febbraio 2017), la VI sezione civile della Suprema Corte ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 l. 89/2001 – per come sostituito dall’art. 55, comma 1°, lett. d), d.l. 83/2012, convertito, con modificazioni, nella l. 134/2012 – con riferimento agli artt. 3, 24, 111, comma 2°, e 117, comma 1°, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1°, e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), in quanto la disposizione censurata, nel significato ormai assurto a “diritto vivente”, preclude la proposizione della domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento nel cui ambito si assume verificata la violazione della ragionevole durata del processo (Corte cost. 25 febbraio 2014, n. 30, Corr. giur., 2014, 685, con nota di C. Consolo e M. Negri, e Giur. cost., 2014, 461, con nota di F. Gambini; Cass. 1° luglio 2016, n. 13556, Foro it., Rep. 2016, voce Diritti politici e civili, n. 340; 12 ottobre 2015, n. 20463, id., Rep. 2015, voce cit., n. 340; 16 settembre 2014, n. 19479, id., Rep. 2014, voce cit., n. 314; 2 settembre 2014, n. 18539, ibid., voce. cit., n. 300).

I collegi rimettenti hanno evidenziato che, con la sentenza n. 30/2014, la Consulta, nello scrutinare un’analoga questione di legittimità costituzionale, aveva già ravvisato nel differimento dell’esperibilità del rimedio di cui alla l. 89/2001 un pregiudizio alla sua effettività, sollecitando l’intervento correttivo del legislatore. Il vulnus costituzionale riscontrato non sarebbe stato tuttavia ovviato dai rimedi preventivi nel frattempo introdotti dall’art. 1, comma 777°, l. 208/2015, volti sì a prevenire l’irragionevole durata del processo, ma non incidenti sull’effettività della tutela indennitaria una volta che essa sia maturata (in senso contrario, v. Cass. 1° luglio 2016, n. 13556, cit.). Per tale motivo, essendo il monito impartito dalla Consulta nel 2014 rimasto inascoltato, la Corte di cassazione ha ritenuto che l’art. 4 l. 89/2001 sarebbe dovuto essere dichiarato incostituzionale nella parte de qua.

SOLUZIONE

[1] La Corte costituzionale ha accolto la domanda dei rimettenti e ha per l’effetto dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 l. 89/2001 nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto per violazione dei parametri costituzionali già richiamati (eccezion fatta per l’art. 24 Cost., la cui violazione non è stata ritenuta dalla Corte adeguatamente argomentata).

A sostegno della propria decisione, in sostanziale accoglimento delle argomentazioni addotte dalle ordinanze di rimessione, il giudice delle leggi ha evidenziato che, con la sentenza n. 30/2014, essa aveva già riscontrato la lesione delle citate norme costituzionali da parte dell’art. 4 cit. e che, tuttavia, nonostante il monito rivolto al legislatore, l’illegittimità costituzionale rilevata non era stata superata. I rimedi preventivi introdotti dall’art. 1, comma 777°, l. 208/2015, infatti, da un lato non sarebbero adeguati in presenza di violazioni del termine di ragionevole durata del processo già consumatesi e, dall’altro lato, non essendo vincolanti per il giudice – il quale è comunque tenuto a rispettare, ai sensi dell’art. 1-ter, comma 7°, l. 89/2001, le ulteriori disposizioni che determinano l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti – non avrebbero una concreta efficacia acceleratoria (in tal senso, anche Corte EDU, Grande Camera, 29 marzo 2006, Scordino c. Italia, Corr. giur., 2006, 929, con nota di R. Conti).

Peraltro, tale rilievo sarebbe avvalorato dalla circostanza per cui la medesima Corte di Strasburgo ha ritenuto priva di effettività l’istanza di prelievo alla cui formulazione l’art. 54 d.l. 112/2008, convertito, con modificazioni, dalla l. 133/2008, subordinava la proponibilità della domanda di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo amministrativo (Corte EDU, 22 febbraio 2016, Olivieri e altri c. Italia, in questa Rivista, 11 ottobre 2016, con nota di G. Anania).

Infine, si è rilevato che la declaratoria di illegittimità sollecitata dal giudice a quo non potrebbe essere impedita nemmeno dalla peculiarità con cui la l. 89/2001 conforma il diritto all’equa riparazione, collegandolo, nell’an e nel quantum, all’esito del giudizio in cui l’eccessivo ritardo è maturato, in quanto spetterà ai giudici comuni trarre dalla decisione della Corte costituzionale i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione, dovendo peraltro il legislatore provvedere a disciplinare, nel modo più sollecito possibile, gli aspetti meritevoli di apposita regolamentazione (Corte cost. 7 aprile 2011, n. 113, Foro it., 2013, I, 802, con nota di L. Calò).

QUESTIONI

[1] L’originario tessuto normativo della l. 89/2001 (c.d. legge Pinto) ha subito significative modifiche ad opera dell’art. 55 d.l. 83/2012, che ha sostituito, tra l’altro, proprio l’art. 4, il quale, mentre nel testo originario prevedeva che «[l]a domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui a decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva (corsivo aggiunto)», dopo la riforma del 2012 stabiliva esclusivamente che «[l]a domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva».

Seppur sul piano puramente letterale il nuovo testo non impediva espressamente la proponibilità della domanda di equa riparazione durante la pendenza del giudizio presupposto, a tale esclusione si era pervenuti sulla base di un’interpretazione fondata sul criterio sistematico e sull’intenzione del legislatore, nonché valorizzando la circostanza per cui la riforma del 2012 ha condizionato l’an e il quantum del diritto all’indennizzo alla definizione del giudizio, prevedendo altresì una serie di ipotesi di esclusione del diritto all’indennizzo dipendenti dalla condotta processuale della parte e finanche dall’esito del giudizio, come il caso della condanna del soccombente ai sensi dell’art. 96 c.p.c. (così, da ultimo, Cass. 16 febbraio 2017, n. 4180, Corr. giur., 2017, 1288, con nota di M. Negri; 23 gennaio 2017, n. 1727, ibid., 1285).

Le critiche alla nuova formulazione dell’art. 4 l. 89/2001 era dunque pervenute da parte della dottrina (tra molti, v. C. Consolo, M. Negri, Ipoteche di costituzionalità sulle ultime modifiche alla legge Pinto: varie aporie dell’indennizzo municipale per durata irragionevole del processo (all’epoca della – supposta – spending review), in Corr. giur., 2013, 1434 s.; F. De Santis di Nicola, Durata ragionevole e rimedio effettivo. La riforma della legge Pinto, Napoli, 2012, 192 ss.; in senso favorevole alle novella, si era espressa invece M.F. Ghirga, L’infrazionabilità dell’equa riparazione dovuta per la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo anche alla luce delle modifiche introdotte dall’art. 55 l. 7 agosto 2012, n. 134 alla legge Pinto, in Corr. giur., 2013, 6, 823), della giurisprudenza (App. Bari 18 marzo 2013, Corr. giur., 2013, 1420) e finanche della Direzione generale per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa (in tal senso la nota prot. DH-DD(2012)806 inviata al Governo italiano, in https://rm.coe.int/090000168063cdf5), tanto che, la medesima Corte costituzionale, con la più volte citata sentenza n. 30/2014, aveva rivolto un monito al legislatore, rilevando di fatto già all’epoca i profili di illegittimità richiamati nella sentenza in commento.

Accogliendo gli auspici della dottrina, che invero aveva già preconizzato all’indomani della pronuncia del 2014 un nuovo intervento del giudice delle leggi (F. Gambini, La legge Pinto è incostituzionale, ma la questione è inammissibile: si torna a Strasburgo?, in Giur. cost., 2014, 461), la Corte ha dunque portato a compimento il percorso inaugurato, lasciando tuttavia ai giudici di merito – ovvero, preferibilmente, al legislatore – il compito di determinare il criterio di computo dell’indennizzo dovuto nel caso in cui il processo presupposto non si sia ancora concluso, non essendo a tale ipotesi esattamente applicabile la disciplina oggi dettata dall’art. 2-bis l. 89/2001.