7 Novembre 2017

Sulla revocabilità della sentenza di revocazione emessa dalla Corte di cassazione

di Marco Russo, Avvocato Scarica in PDF

Cass., Sez. I, 4 settembre 2017, n. 20724 – Presidente Aniello – Estensore Lamorgese

Revocazione – Sentenze di cassazione – (C.p.c. art. 391 bis, 391 ter, 395, 403)

Le sentenze e le ordinanze emesse dalla Corte di cassazione nel giudizio di revocazione non sono suscettibili di una nuova impugnazione per revocazione alla luce del divieto, posto dall’art. 403 c.p.c., di proposizione di una nuova domanda di revocazione avverso la sentenza che si sia pronunciata su una prima domanda ex art. 395 c.p.c.

CASO

La parte, soccombente sia (i) nel giudizio di rinvio susseguente alla cassazione della sentenza della Corte d’appello “A” che aveva emesso nei suoi confronti sentenza di condanna generica al risarcimento del danno sia (ii) nel giudizio proseguito davanti alla stessa Corte territoriale per l’individuazione del quantum debeatur, impugna per cassazione entrambe le decisioni, ossia la sentenza, emessa dalla Corte d’appello “B”, al termine del giudizio di rinvio e la sentenza, emessa dalla Corte d’appello “A” sul quantum.

Avverso la decisione della Cassazione è proposto ricorso per revocazione, per ragioni (vertenti sul «mancato esame delle varie consulenze di ufficio eseguite in fase istruttoria e degli accertamenti peritali facenti parte del fascicolo di causa») il cui esame conduce la Corte a dichiarare inammissibile il ricorso con arresto n. 9678 del 13 giugno 2012, con il quale il giudice di legittimità evidenzia, in particolare, che la sentenza revocanda «aveva esaminato le questioni, ma con valutazione in punto di diritto, non suscettibile di giudizio revocatorio».

Tale sentenza è a propria volta impugnata per revocazione, in questo caso per lamentare l’errore di fatto ex art. 395 n. 4 consistito nell’aver ritenuto la Cassazione che i ricorrenti avessero addebitato alla sentenza emessa dalla Corte d’appello “A” di aver omesso di pronunciarsi sulle ulteriori domande di risarcimento da essi proposte, mentre tale omissione era stata addebitata alla Corte d’appello “B”.

SOLUZIONE

La Cassazione dichiara il ricorso inammissibile sulla base del divieto posto dall’art. 403 c.c., ai sensi del quale “non può essere impugnata per revocazione la sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione. Contro di essa sono ammessi i mezzi d’impugnazione ai quali era originariamente soggetta la sentenza impugnata per revocazione”.

Secondo la Corte, «il principio di effettività del giudizio di Cassazione […] implica che tale rimedio non è utilizzabile quando il controllo di legittimità sull’oggetto del giudizio sia stato già svolto dalla Suprema Corte, dovendo prevalere, in tal caso, l’esigenza di assicurare che il processo giunga a conclusione in tempi ragionevoli, ex art. 111 Cost., comma 2».

QUESTIONI

Sono noti i problemi che il divieto (in realtà frutto di una tradizione secolare nell’ambito del processo civile, e ancora recentemente mantenuto dall’art. 107, comma 2 del D. Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, c.d. codice del processo amministrativo) pone sul piano logico, malgrado i numerosi tentativi di giustificare almeno sul piano pratico la regola – di assai dubbia compatibilità con un processo “giusto”, anche ai fini di cui all’art. 111 Cost. – che impedisce di far valere il vizio revocatorio da cui sia affetta una sentenza a sua volta emanata a seguito di un giudizio di revocazione.

Secondo la dottrina classica, infatti, la disposizione appariva “ben giusta” (Compagnone, La revocazione dei giudicati civili, Aversa, 1903, 48), e anzi costituiva semplice estrinsecazione di «quella medesima necessità di por fine alle contese la quale vieta di appellare contro una sentenza pronunziata in grado di appello» (Mortara, Manuale della procedura civile, II, Torino, 1898, 78), mentre, in epoca meno recente, si è osservato che il divieto, originato da un bisogno teorico di chiusura del sistema (Rota, Revocazione nel diritto processuale civile, in Dig. disc. priv., Sez. civ., XVI, Torino, 1998, 491), mira ad evitare che lites fiant immortales e che dunque la parte «ottusamente litigiosa possa, solo pagando il canone della promozione dell’impugnazione […] coltivare la lite all’infinito» (Nicoletti, La revocazione della sentenza tra la decisione Corte cost. 17/86 e la responsabilità del giudice, Milano, 1988, 90 s.).

Con ciò, la norma impedirebbe che una tendenziale, illimitata possibilità di impugnazione per revocazione svuoti di significato la regola del giudicato ed esponga la soluzione del conflitto al rischio di ripetute contestazioni, e permetterebbe così alle parti di fare affidamento su una statuizione idonea a «concludere definitivamente la controversia» (Cass., 30 dicembre 2013, n. 28800; Cass., 23 gennaio 2013, n. 1561): istanze pur comprensibili sul piano della ragionevole durata del processo e del principio di stabilità delle pronunce giurisdizionali, che tuttavia l’art. 403 c.p.c., almeno nel suo tenore letterale, soddisfa a discapito delle esigenze di giustizia sociale, come appare plasticamente nelle ipotesi in cui la sentenza che rimedia all’errore revocatorio commesso dal primo giudice sia a propria volta viziata da una nuova – e potenzialmente persino più grave – “svista” (Cass., sez. un., 7 marzo 2016, n. 4413; Cass., 4 novembre 2015, n. 22520), la quale tuttavia, a differenza della prima, non potrà essere emendata (il che, come si vedrà poco oltre, pone ulteriori dubbi di costituzionalità in riferimento al principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.).

Tale evidente discrasia ha giustificato l’interpretazione fortemente restrittiva della giurisprudenza che, sulla scorta della migliore dottrina, ritiene che la preclusione si applichi soltanto ai casi in cui il giudizio si è concluso con una decisione di accoglimento della domanda di revocazione, con esclusione dunque non soltanto delle ipotesi in cui la fase rescissoria ha condotto al rigetto dell’istanza nel merito, ma, a monte, anche nei casi in cui la fase rescindente si è conclusa con una pronuncia in rito per inammissibilità ovvero improcedibilità della domanda [in tal senso Consolo, La revocazione delle decisioni della Cassazione e la formazione del giudicato, Padova, 1989, 134 ss., secondo cui «almeno il motivo dell’errore di fatto […] non potrà rimanere senza uno strumento per essere fatto valere, stante la contrarietà, in parte qua, dell’art. 403, comma 1 rispetto agli artt. 3 (e 24) Cost.»].

Si tratta in realtà di un orientamento ricavabile dalla sola e non recente App. Milano, 13 luglio 1973, in Foro pad., 1973, I, 381, e difficilmente compatibile con il tenore letterale della disposizione, che si riferisce indistintamente a tutte le pronunce emanate «nel giudizio di revocazione» e dunque, almeno nelle intenzioni del legislatore, parrebbe doversi estendere a tutte le decisioni – tra cui, dunque, anche quelle in rito – emanate a seguito dell’impugnazione ex art. 395 c.p.c.).

A tale orientamento pare derogare la sentenza in commento, che ha dichiarato inammissibile la domanda di revocazione di una decisione che aveva dichiarato a sua volta inammissibile (dunque senza entrare nel merito del vizio revocatorio) l’istanza di revocazione della sentenza ex art. 395, n. 4  c.p.c.

Appare dunque ancora preferibile l’opposta tesi, che, anche al fine di limitare gli evidenti problemi di compatibilità del divieto con la Costituzione (quanto meno sotto il profilo dell’inaccettabile disparità di trattamento tra chi risulti soccombente a causa dell’errore revocatorio contenuto nella prima sentenza oggetto di revocazione, e chi risulti soccombente per errore revocatorio nella sentenza sulla revocazione), argina opportunamente l’applicabilità di una norma «oggi assolutamente incomprensibile» (Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 2015, 516), che «non ha le carte in regola con la logica» (Consolo, op. cit., 134 ss.).

Tale interpretazione evita infatti, in primo luogo, l’irrevocabilità per errore di fatto della sentenza che dichiari inammissibile la domanda di revocazione avverso una sentenza d’appello travisando la data in cui l’impugnazione è stata proposta: qualora si ritenesse preclusa la revocazione alla luce dell’art. 403, comma 1 c.p.c., infatti, la decisione risulterebbe sostanzialmente incontrovertibile dal momento che la sentenza di revocazione è impugnabile per cassazione soltanto per i motivi di cui all’art. 360 c.p.c., e non per quelli di cui all’art. 395 c.p.c. (Cass., 24 febbraio 2016, n. 3680, in motivazione; Cass., 19 marzo 2007, n. 6441): il vizio ipotizzato non apparirebbe riconducibile infatti al motivo di ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 3, derivando l’errore da una mera «svista su un dato di fatto» (Cass., 12 marzo 2013, n. 3494) più che da una violazione o falsa applicazione delle norme in materia di notificazione, e dunque non rientrando nell’ambito dei vizi denunciabili avanti alla Corte di cassazione; né al n. 4, non trattandosi in ogni caso di un vizio di nullità; né ancora al n. 5, risultando tutt’al più errato, e non radicalmente “omesso”, l’esame della relata.

In secondo luogo, impedisce abusi del processo connessi alla possibilità, per le altre parti coinvolte nel giudizio a quo, di “bruciare” successive revocazioni instaurando cause ex art. 395 c.p.c. destinate a non concludersi con una pronuncia nel merito (ad esempio perché avviate tramite notificazione di un atto di citazione sprovvisto degli elementi elencati dall’art. 398 c.p.c., oppure fondato sulla denuncia di un vizio non rientrante in alcuno dei motivi di cui all’art. 395).