28 Novembre 2017

Parità di trattamento e discriminiazione

di Evangelista Basile Scarica in PDF

Corte Costituzionale, 12 maggio 2017, n. 111

Diritto alla pensione – Età pensionabile – Parità di trattamento tra uomo e donna – Legge Fornero – Impiegati pubblici

 MASSIMA

È inammissibile, per irrilevanza, la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli art. 24, co. 3, primo periodo, d.l. 6.12.2011 n. 201, conv., con modificazioni, dalla L. 22.12.2011 n. 214, come interpretato dall’art. 2, co. 4, d.l. 31.8.2013 n. 101, e 2, co. 21, L. 8.8.1995 n. 335, nella parte in cui impone il collocamento a riposo al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età delle impiegate che abbiano maturato i requisiti per il conseguimento della pensione con il raggiungimento del sessantunesimo anno di età e di venti anni di contribuzione alla data del 31.12.2011, laddove gli impiegati, che si trovino nella medesima condizione lavorativa, sono collocati a riposo al raggiungimento dell’età di sessantasei anni e tre/sette mesi, in riferimento agli art. 3, 37, comma 1, cost. e, in relazione agli art. 157 TFUE e 21 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, 11 e 117, comma 1, cost.

 COMMENTO

Nel caso esaminato, erano sottoposte alla Corte costituzionale, in quanto sospette di incostituzionalità, anche per contrasto con norme comunitarie, leggi interne che stabiliscono residue diversità di trattamento tra impiegate e impiegati pubblici riguardo all’età di pensionamento. Nel caso di specie, il Tribunale rimettente riferiva che, con ricorso depositato il 7 maggio 2015, una lavoratrice esponeva di avere prestato servizio alle dipendenze del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, con incarico di funzionario bibliotecario e che, con provvedimento del 17 dicembre 2014, detto Ministero aveva disposto il suo collocamento a riposo dal 1° febbraio 2015, nonostante ella avesse espressamente diffidato l’amministrazione a trattenerla in servizio fino al raggiungimento dell’età di sessantasei anni e tre mesi; sosteneva che, non avendo maturato, alla data del 31 dicembre 2011, alcuno dei requisiti per il pensionamento dei dipendenti pubblici, aveva diritto, a norma dell’art. 24 del decreto-legge n. 201 del 2011, a rimanere in servizio fino al compimento dell’età di sessantasei anni e tre mesi, come previsto, per tutti i dipendenti, a decorrere dal 1° gennaio 2012. La lavoratrice chiedeva pertanto che fosse accertato il proprio diritto a essere trattenuta in servizio fino al raggiungimento dell’età di sessantasei anni e tre mesi e che, conseguentemente, il convenuto Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo fosse condannato a trattenerla in servizio e, per l’effetto, a reintegrarla nell’incarico di funzionario bibliotecario. Lo stesso Tribunale rimettente riferiva altresì che il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo si era costituito in giudizio il 30 ottobre 2015, sostenendo che la ricorrente non rientrasse tra i soggetti che maturano i requisiti per il pensionamento a decorrere dal 1° gennaio 2012, dal momento che la stessa, alla data del 31 dicembre 2011 – avendo trentatré anni e due mesi di contribuzione e avendo raggiunto il sessantunesimo anno di età, aveva già maturato i requisiti per il pensionamento di anzianità. Ricostruendo il quadro normativo sotteso al caso oggetto di rimessione alla Corte Costituzionale, il rimettente esprime forti dubbi in riferimento alle legittimità costituzione del combinato disposto dell’art. 24, comma 3 (recte: 24, comma 3, primo periodo), del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, come interpretato dall’art. 2, comma 4, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101 (Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, e dell’art. 2, comma 21, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) con riferimento agli artt. 3, 11, 37, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – l’art. 11 Cost. in relazione all’art. 141 (recte: art. 157) del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 della direttiva 5 luglio 2006, n. 2006/54/CE, recante «Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione)» – della legittimità costituzionale. La Corte, rilevando che alcune delle norme comunitarie invocate (del Trattato e della Carta dei diritti fondamentali – TFUE e CDFUE) sono dotate di efficacia diretta nello Stato, ribadisce che, di conseguenza, il giudice nazionale rimettente avrebbe dovuto automaticamente non applicare le norme nazionali in contrasto (rendendo così superfluo l’investitura della Corte Costituzionale) e, in caso di dubbio, interrogare di tale questione direttamente la Corte di Giustizia UE con ricorso pregiudiziale per l’interpretazione delle norme comunitarie in questione. A riguardo, la Corte rammenta che, se tutte le norme comunitarie costituiscono quantomeno un riferimento obbligatorio per l’interpretazione della legge interna da parte del giudice italiano, solo alcune di esse hanno efficacia diretta all’interno degli Stati membri; tali norme comportano che il giudice italiano è autorizzato a non applicare la disposizione interna in contrasto (col solo limite dei principi fondamentali del diritto costituzionale interno e dei diritti inalienabili della persona). Conclude la Corte precisando che è proprio il diritto europeo secondario, direttiva n. 2006/54/CE, che statuisce espressamente che nelle disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento sono da includere quelle che si basano sul sesso per «stabilire limiti di età differenti per il collocamento a riposo» (art. 9, comma 1, lettera f, inserito nel Capo 2, dedicato alla «Parità di trattamento nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale») e che è vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto attiene «all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione come previsto dall’art. 141 del trattato» (art. 14, comma 1, lettera c, inserito, invece, nel Capo 3, dedicato alla «Parità di trattamento per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro»).

Articolo tratto dalla Rivista Euroconference “IL GIURISTA DEL LAVORO”