30 Gennaio 2018

Licenziamenti individuali

di Evangelista Basile Scarica in PDF

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 14 novembre 2017, n. 26867

Denuncia penale del lavoratore – Condotta disciplinarmente rilevante – Calunnia – Infondatezza denuncia o archiviazione – Non sussiste

MASSIMA

La sola denuncia all’autorità giudiziaria di fatti astrattamente integranti ipotesi di reato non costituisce di per sé condotta disciplinarmente rilevante, tale da giustificare il licenziamento per giusta causa. Ipotesi diversa è quella in cui l’iniziativa del lavoratore sia stata strumentalmente presa nella consapevolezza della insussistenza del fatto o della assenza di responsabilità del datore. A tale fine la denuncia che si riveli infondata e il procedimento penale definito con l’archiviazione della notizia criminis o con la sentenza di assoluzione non sono circostanze sufficienti a dimostrare il carattere calunnioso della denuncia stessa.

COMMENTO

Il caso in esame ha origine nel licenziamento disciplinare comminato a un dipendente a seguito della denuncia presentata alla competente Procura della Repubblica e al Ministero del lavoro relativamente alla utilizzazione illegittima della cassa integrazione guadagni straordinaria, altre violazioni della disciplina legale e contrattuale del lavoro straordinario, alla utilizzazione di fondi pubblici e alla normativa sulla intermediazione di manodopera. Avverso il licenziamento, il lavoratore ricorreva in giudizio; tuttavia sia in primo sia in secondo grado, i Giudici ritenevano legittimo il provvedimento, in quanto il riconosciuto diritto di critica non legittima l’assunzione di iniziative che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, siano idonee a ledere l’immagine e il decoro del datore di lavoro, determinando un possibile pregiudizio per l’impresa. Nel caso di specie, tali limiti dovevano essere considerati superati stante l’esito negativo sia delle indagini preliminari condotte dalla Procura, sia dell’ispezione amministrativa volte all’accertamento della sussistenza dei suddetti illeciti. A fronte di tutto ciò, i Giudici ritenevano che la condotta posta in essere dal lavoratore avesse effettivamente leso il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro e che, quindi, il licenziamento non poteva che essere confermato. Il lavoratore ricorreva in Cassazione, eccependo l’errata applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità secondo la quale il diritto di critica è travalicato solo qualora vi sia dolo o colpa grave da parte del dipendente che presenti la denuncia. La Suprema Corte, ritenuti fondati i motivi del ricorso, cassa la sentenza impugnata. In continuità con le precedenti pronunce, la Cassazione nega, infatti, che l’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c., così come costantemente interpretato in correlazione con i canoni di buona fede e correttezza, possa in qualche modo addivenire ad un divieto di denuncia di fatti illeciti ritenuti sussistenti o comunque ad impedimento della denuncia. In altri termini, il diritto-dovere di denuncia deve prevalere sulle dinamiche insite del rapporto di lavoro. L’ordinamento, infatti, riconosce e valorizza interessi pubblici superiori che non possono di certo essere posti in pericolo da una sorte di “dovere di omertà” del lavoratore. Il discrimine, dunque, deve ritenersi esclusivamente l’elemento soggettivo sottostante la condotta posta in essere: l’obbligo di fedeltà è violato se vi è stato da parte del lavoratore denunciante dolo o colpa grave, solo, dunque, se il dipendente sapeva che il fatto denunciato non è mai stato commesso o se avrebbe comunque potuto agevolmente accertarne la veridicità.

Articolo tratto dalla Rivista Euroconference “IL GIURISTA DEL LAVORO”