16 Ottobre 2018

La fisionomia della compensatio lucri cum damno dopo l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel 2018

di Stefano Gatti Scarica in PDF

Abstract

La regola che la nota espressione latina “compensatio lucri cum damno” (d’ora in avanti abbreviata con l’acronimo c.l.c.d.) sintetizza è stata oggetto, nell’anno in corso, di un’importante risistemazione giurisprudenziale, grazie all’opera, che risulta coordinata negli esiti, del massimo consesso della giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Ad. plen., 23 febbraio 2018, n. 1) e della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez. un., 22 maggio 2018, nn. 12564, 12565, 12566, 12567: d’ora in avanti anche ricordate, per brevità, come “le Sezioni Unite del 2018”).  L’ammodernamento dello statuto giurisprudenziale della c.l.c.d. ha trovato impulso e apporto significativo – ma non già la soluzione – nelle ordinanze di rimessione alle Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. civ., Sez. III, 22 giugno 2017, nn. 15534, 15535, 15536, 15537: d’ora in avanti anche ricordate, per brevità, come “le ordinanze di rimessione”), le quali si pongono in linea di continuità con le dirompenti sentenze cc.dd. “Rossetti” (dal nome del Consigliere Relatore) del 2014 (Cass. civ., Sez. III, 11 giugno 2014, n. 13233 e Cass. civ., Sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537) e del 2016 (Cass. civ., Sez. III, 20 aprile 2016, n. 7774) oltre che con Cass. civ., Sez. III, 5 marzo 2015, n. 4447, precedente ordinanza di rimessione della questione della c.l.c.d. alle Sezioni Unite (le quali – Cass. civ., Sez. Un., 30 giugno 2016, n. 13372 – non si pronunciarono però sul punto: sulla questione, in relazione alla vicenda concreta, cfr. ampiamente, i tre “atti” e le “conclusioni” del saggio di U. Izzo, È nato prima il danno o la sicurezza sociale?, rispettivamente in Resp. civ. e prev., 2015, p. 1816 e, in Resp. civ. e prev., 2016, pp. 40, 399 e 759, nonché Id, Surrogarsi nel nulla? Le Sezioni unite (per ora?) non toccano i fondamenti della compensatio lucri cum damno, in Resp. civ. e prev., 2016, p. 1224).

  1. Il fondamento della “compensatio lucri cum damno”.

L’espressione “compensatio lucri cum damno” indica, in via di prima approssimazione, la necessità che, ai fini della determinazione del risarcimento del danno, in ipotesi tanto di responsabilità contrattuale quanto di responsabilità extracontrattuale, si tenga conto non solo dei pregiudizi subiti dal danneggiato, ma anche dei vantaggi che il medesimo abbia eventualmente conseguito in ragione del fatto illecito o dell’inadempimento.

Sulla bontà, sempre in via generale, di questa indicazione, residuano ben pochi dubbi in dottrina (le voci contrarie sono rimaste nettamente minoritarie) e non si registrano incertezze in giurisprudenza, se si fa eccezione di qualche isolata pronuncia.

Nel dibattito, tuttavia, i problemi sorgono già sul piano dell’inquadramento della c.l.c.d, ossia allorché ci si chieda se si tratti di un principio, di una regola o di un istituto dell’ordinamento giuridico. Si è d’accordo, in ogni caso, nel ricordare la matrice dottrinale e giurisprudenziale della figura e nell’affermare che essa nulla ha a che vedere con la compensazione di cui agli artt. 1241 ss. cod. civ., modo di estinzione delle obbligazioni diverso dall’adempimento (una conseguenza si rinviene nell’orientamento, generalmente accettato, della rilevabilità d’ufficio dei vantaggi da “diffalcare” dal danno, mentre la compensazione ex art. 1241 ss. cod. civ. deve essere eccepita, giusta l’art. 1242, co. 1°, cod. civ.: cfr., ex aliis, Cass. civ., Sez. III, 20 gennaio 2014, n. 992 e le ordinanze Cass. civ., Sez. III, 22 giugno 2017, nn. 15534, 15535, 15537; cfr., sul punto, M. Ferrari, La compensatio lucri cum damno come eccezione rilevabile d’ufficio, in Resp. civ. e prev., 2015, p. 666). Diversi autori, peraltro, ritengono che la c.l.c.d. non costituisca una figura autonoma, risolvendosi la relativa questione nella corretta applicazione dell’art. 1223 cod. civ. (cfr. M. Franzoni, Il danno risarcibile, II, in Trattato della responsabilità civile dal medesimo diretto, Milano, 2010, p. 39 ss.).

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, nelle menzionate pronunce del 2018, seppure incidentalmente, hanno accolto la tesi secondo cui la c.l.c.d. costituisce una «regola di evidenza operativa per la stima e la liquidazione del danno» e ne hanno rinvenuto il fondamento «nell’idea del danno risarcibile quale risultato di una valutazione globale degli effetti prodotti dall’atto dannoso». Il discorso può quindi ricondursi all’art. 1223 cod. civ., da cui si ricava il principio secondo il quale il risarcimento deve comprendere tutto (e solo) il danno, garantendo alla vittima dell’illecito un ristoro del pregiudizio tale da riportarla in una situazione di indifferenza rispetto alle conseguenze dell’illecito, senza che quest’ultimo si tramuti in un’occasione di arricchimento. Come si dirà subito, tuttavia, perché operi la compensatio, a fianco della causalità giuridica (ex art. 1223 cod. civ.), devono ricorrere ulteriori requisiti, il cui vaglio richiede un’analisi necessariamente casistica.

  1. L’ambito di operatività della compensatio lucri cum damno.

A prescindere dal suo inquadramento, è sul piano della operatività della c.l.c.d. che si sono registrate le maggiori incertezze.

Le Sezioni Unite hanno difatti confermato l’esistenza di un «contrasto occulto» (come lo hanno definito le ordinanze di rimessione e ancora prima Cass. civ., Sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537) in seno alla giurisprudenza di legittimità sul problema, più specifico, del campo di applicazione della c.l.c.d.

Sul piano pratico, l’orientamento giurisprudenziale tradizionale maggioritario aveva sovente relegato alla irrilevanza la c.l.c.d., poiché, mentre da un lato si affermava l’indubbia vigenza della regola, dall’altro lato se ne subordinava l’applicazione a presupposti alquanto stringenti, nei fatti di rado sussistenti (cfr. ad es., G. Giusti, voce «Compensatio lucri cum damo», in Dig. disc. priv. Sez. civ., Agg., 2011, p. 202 ss.; M. Franzoni, ibidem).

In particolare, ai fini dell’operatività del diffalco, in numerose pronunce si è precisato che il lucro dovesse essere “immediatamente e direttamente” riconducibile al fatto illecito (ad es., Cass. civ., Sez. III, 20 maggio 2013, n. 12248) e che quest’ultimo, quindi, non dovesse costituire una semplice “occasione” del vantaggio (ad es. Cass. civ., 30 luglio 1987, n. 6624); in altre sentenze si è invocata la necessità di un’omogeneità dei titoli da cui discendono pregiudizi e vantaggi (cfr., ad es., Cass. civ., Sez. III, 10 febbraio 1999, n. 1135)

A queste così rigide concezioni, si sono mosse due critiche di fondo. Per un primo verso, la regola eziologica della derivazione “immediata e diretta” non terrebbe conto dell’evoluzione giurisprudenziale nel campo della causalità (in senso ampio) giuridica, ormai stabilmente approdata alla teoria della regolarità causale, sicché non si vedrebbe ragione per trattare diversamente le conseguenze pregiudizievoli e quelle vantaggiose (si tratta della «interpretazione asimmetrica» dell’art. 1223 cod. civ. criticata dalle ordinanze di rimessione); per un secondo verso, come le Sezioni Unite del 2018 hanno osservato, condividendo un rilievo delle stesse ordinanze di rimessione del 2017, «è assai raro che le poste attive e passive abbiano entrambe titolo nel fatto illecito».

Sulla scorta di queste critiche, con le citate pronunce Cass. civ., Sez. III, 11 giugno 2014, n. 13233 (in tema di indennizzi assicurativi), Cass. civ., Sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537 (in tema di pensione di reversibilità), Cass. civ., Sez. III, 20 aprile 2016, n. 7774 (in tema di indennità di accompagnamento), mercé una serrata argomentazione, aveva preso una certa consistenza un orientamento, prima sostenuto più sporadicamente e in alcuni settori (è richiamata ad esempio la questione – invero ricondotta dalla dottrina al di fuori del problema della c.l.c.d.: cfr. De Cupis, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, I, Milano, 1979, p. 326 –  della cumulabilità del risarcimento del danno da incapacità lavorativa con lo stipendio che il lavoratore continui eventualmente a percepire, risolta in senso negativo dall’orientamento più recente della Suprema Corte, cfr. già Cass. civ., Sez. III, 11 luglio 1978, n. 3507), più favorevole, in concreto, allo scomputo dell’emolumento ricevuto da un terzo. Secondo il cardine “logico”, “dogmatico” e “sistematico” (per riprendere i tipi dei “vulnera” dell’orientamento tradizionale restrittivo enucleati nella motivazione della citata Cass. civ., Sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537 e ripresi dalle ordinanze di rimessione) di tale indirizzo, la regola dello scomputo (solo apparentemente riconducibile ad un istituto autonomo, ma in realtà derivazione del principio di indifferenza del risarcimento) deve essere emancipata da presupposti estranei alla causalità giuridica; a ciò si aggiunge la considerazione che il cumulo priverebbe, in concreto, il terzo che abbia erogato il beneficio, della possibilità di esercitare il diritto di surrogazione, normalmente concessogli dalla legge.

L’avere riscontrato nella c.l.c.d. niente più che una manifestazione del principio del danno effettivo candidava la soluzione avanzata dall’orientamento appena ricordato a risolvere ogni problema di concorso tra danno e benefici erogati da soggetti terzi, pubblici o privati.

Va segnalato che l’angolo prospettico da cui le ordinanze di rimessione della Cassazione si sono mosse non è tanto giungere ad una soluzione dogmaticamente ineccepibile, quanto, piuttosto fornire agli operatori una regola certa e il più possibile prevedibile negli esiti della sua applicazione (è in particolare richiamato l’art. 65 ord. giud.).

Le Sezioni Unite della Cassazione, così come prima già l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, hanno però preferito evitare generalizzazioni.

In particolare, la seconda, chiamata a decidere se fosse detraibile dal risarcimento del danno alla salute, spettante ad un dipendente pubblico (un magistrato) per una malattia contratta in seguito ad esposizione all’amianto presente negli uffici in cui lavorava, quanto ricevuto a titolo di indennità per l’infermità riconosciuta come dipendente da causa di servizio (cfr. art. 68 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 ratione temporis vigente), ha premesso che la questione generale della c.l.c.d. non può trovare una soluzione «unitaria», essendo «strettamente correlata alla specificità delle fattispecie concrete».

Le Sezioni Unite, impegnate a risolvere la questione dello scomputo di alcune prestazioni erogate da soggetti terzi (v. infra par. 4), hanno precisato che il più ampio e generale interrogativo posto dalle ordinanze di rimessione è stato esaminato «nei limiti della sua rilevanza: fino al punto, cioè, in cui esso rappresenta un presupposto o una premessa sistematica indispensabile per l’enunciazione, a risoluzione del contrasto in giurisprudenza, di un principio di diritto legato all’orizzonte di attesa della fattispecie concreta».

Entrambi gli organi giurisdizionali, tuttavia, hanno fornito all’interprete alcune indicazioni di sistema che meritano di essere evidenziate (v. parr. 3 e 4). Rispetto ad esse si riporteranno anche alcune tra le prime critiche mosse nei primi commenti in dottrina (v. par. 5).

  1. La soluzione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato: tre “categorie” di fattispecie

Il caso al vaglio dall’Adunanza plenaria, sopra ricordato, rientra, secondo la ricostruzione adottata dalla stessa pronuncia, in una delle tre possibili categorie di fattispecie (la “terza”) in cui può presentarsi il problema della c.l.c.d., per come prospettato dall’ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato, 6 giugno 2017, n. 2719.

Si tratta, in particolare, delle ipotesi in cui vi sia un unico soggetto che, in presenza di un’unica condotta responsabile, è obbligato, in base a titoli differenti, al risarcimento e ad un diverso emolumento. Se l’emolumento ha la finalità di compensare lo stesso pregiudizio oggetto dell’obbligo risarcitorio (come ritenuto, in superamento dell’orientamento tradizionale, nel caso dell’indennità ex art. 68 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, in relazione al bene “salute”), le due obbligazioni (risarcimento e indennità), pur se formalmente distinte – perché distinti sono i titoli da cui esse sorgono, ossia la legge e l’illecito – dovrebbero essere intese come “sostanzialmente unitarie”, mirando entrambe le rispettive prestazioni a «reintegrare la sfera personale della parte lesa» da un’unica condotta dannosa. In sostanza, quindi, sotto il profilo funzionale, anche la prestazione sarebbe “sostanzialmente unitaria”: ne deriva, secondo la motivazione della pronuncia, che la detrazione dell’indennità, in questo caso, è il frutto non dell’applicazione della regola della c.l.c.d., ma piana conseguenza della determinazione del danno risarcibile, avuto riguardo all’insegnamento di Cass. Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601, secondo cui un risarcimento ultracompensativo e sanzionatorio (quale sarebbe quello che compensasse l’intero originario pregiudizio senza tenere conto dell’indennità), richiede un esplicito riconoscimento legislativo (a conferma del proprio ragionamento la pronuncia richiama alcune fattispecie in cui si è giunti a soluzioni legislative o interpretative analoghe: quanto alle prime, v. art. 2-bis legge 241/1990; quanto alle seconde, v. Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 584, in relazione ai danni da vaccinazioni obbligatorie, trasfusione di sangue e somministrazione di emoderivati). La conclusione, allora, può ritenersi sostanzialmente analoga a quella proposta per la “prima” categoria di fattispecie («presenza di un solo soggetto autore della condotta responsabile e obbligato a una prestazione derivante da un unico titolo»): ciò che si chiama c.l.c.d. descrive, in queste ipotesi, solo l’effetto della corretta determinazione del risarcimento del danno.

Il Consiglio di Stato non ha preso invece posizione in relazione alla eterogenea categoria di ipotesi (la “seconda”), caratterizzata dalla presenza di un soggetto tenuto al risarcimento del danno e di un soggetto diverso obbligato in base ad un titolo differente (es. indennizzo assicurativo privato o sociale), riscontrando, in primo luogo, «complicazioni ricostruttive connesse al funzionamento della surrogazione» che nella fattispecie al suo vaglio non sussistevano e, in secondo luogo, che le quattro vicende su cui la Sezione terza della Cassazione aveva sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite inerivano proprio questa categoria.

  1. La soluzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione: una valutazione per “classi di casi”

Secondo il ragionamento delle Sezioni Unite, non si può ricercare una risposta universale al problema della c.l.c.d., ma occorre procedere per «classi di casi».

La questione, per la Corte, si pone invero solo nelle ipotesi in cui non vi sia coincidenza tra il soggetto obbligato al risarcimento e quello tenuto all’attribuzione patrimoniale avente una finalità compensativa dello stesso pregiudizio, poiché in tal caso opererebbe senz’altro, come affermato dall’A. plen. Cons. Stato 1/2018, la regola del diffalco.

Nella motivazione della Sezioni Unite, si conferma il superamento del tradizionale requisito della formale coincidenza tra titoli, ma si ritiene la regola, pur evoluta e simmetrica, della causalità (il c.d. «test eziologico unitario» prospettato dalle ordinanze di rimessione) da sola insufficiente: se, infatti, per un verso, costituisce un primo «argine» utile per individuare i vantaggi rilevanti, essa, per altro verso, vi riconduce, inammissibilmente, anche quei benefici che nell’illecito rinvengono un mero «coefficiente causale» (ad esempio l’acquisto di lasciti successori) o che costituiscono «il frutto di scelte autonome e del sacrificio del danneggiato».

Accogliendo la prospettiva di una parte della dottrina (C.M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979, p. 310; v. pure G. De Nova, Intorno alla compensatio lucri cum damno, in Jus civile, 2018, p. 58) e dei principi provenienti dal diritto privato europeo (cfr., in particolare, art. 10:103 dei PETL e art. 6:103, libro VI, DCFR), le Sezioni Unite indicano nell’analisi (per classi di casi) della funzione dell’emolumento ricevuto dal terzo, il requisito essenziale (ma non sufficiente) per l’operatività della regola della c.l.c.d.

Ci si deve chiedere, in sostanza, se l’attribuzione patrimoniale abbia o meno la finalità di compensare, anche pro quota, il pregiudizio patito dal beneficiario (ad esempio, non avrebbe tale funzione l’indennità sorgente dal contratto di assicurazione sulla vita, essendo in questo negozio prevalente la finalità di risparmio).

In caso positivo, ciò non basta: lo scomputo del vantaggio dal risarcimento è subordinato alla previsione legislativa di un meccanismo di surroga o rivalsa, che permetta al terzo di recuperare dal danneggiante le somme erogate al danneggiato – essendo irrilevante, invece, l’effettivo esercizio di tale diritto.

Anche alla luce dell’insegnamento della citata Cass. civ., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601, si  ritiene preminente, infatti, evitare che il beneficio erogato dal terzo finisca per arricchire il danneggiante anziché il danneggiato («apparendo preferibile in tali evenienze favorire chi senza colpa ha subito l’illecito rispetto a chi colpevolmente lo ha causato»).

  1. Le fattispecie concretamente esaminate

Applicando tale ragionamento, in una valutazione necessariamente casistica, la Suprema Corte risolve i contrasti giurisprudenziali sulla questione della c.l.c.d. nelle fattispecie sottoposte al suo vaglio, forgiando principi di diritto ad esse strettamente legati, evitando quindi «l’enunciazione di principî generali e astratti o di verità dogmatiche sul diritto».

a) Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12564: «Dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall’Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto».

L’attribuzione patrimoniale – osservano le Sezioni Unite – non ha infatti la funzione di compensare l’avente diritto del danno economico conseguente alla perdita del congiunto: la pensione di reversibilità, che è erogata a prescindere dalla causa della morte, trova la propria giustificazione nel «rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge» e, quindi, in un sacrificio economico imposto al lavoratore, dietro la “promessa” di garantire ai congiunti un «trattamento diretto a tutelare la continuità del sostentamento e a prevenire o ad alleviare lo stato di bisogno». Per di più, a differenza di quanto sostenuto dalla citata Cass. civ. n. 13537/2014, non è normativamente previsto, in questo caso, un meccanismo che consenta all’Inps di recuperare dall’autore dell’illecito le somme erogate.

b) Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12565: «Il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall’ammontare del danno risarcibile l’importo dell’indennità assicurativa derivante da assicurazione contro i danni che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto».

Secondo la Corte, infatti, se è vero che, da un punto di vista formale, indennizzo e risarcimento sorgono da titoli diversi (rispettivamente l’assicurazione contro i danni e il fatto illecito), i due diritti risultano tuttavia «concorrenti», perseguendo la stessa funzione (ristoro del pregiudizio subito). Inoltre, l’assicuratore che versi l’indennizzo al danneggiato-assicurato, nella misura di quanto erogato, è surrogato ope legis (automaticamente, per effetto del pagamento, ex art. 1916 cod. civ.) nel diritto risarcitorio di quest’ultimo: così, per un verso, in forza del principio indennitario da un lato e del principio di indifferenza del risarcimento dall’altro, il danneggiato non si arricchisce per effetto dell’illecito e, per altro verso, il danneggiante risponde dell’intero danno arrecato, in ossequio al principio di responsabilità. Né avrebbe valore contrario, infine, l’argomento a guisa del quale i premi versati dall’assicurato in costanza del rapporto sarebbero sine causa se l’assicurato non potesse cumulare le due poste: a parere delle Sezioni Unite, essi, infatti, si pongono «in sinallagma con il trasferimento del rischio, non con il pagamento dell’indennizzo».

c) Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12566: «L’importo della rendita per l’inabilità permanente corrisposta dall’INAIL per l’infortunio in itinere occorso al lavoratore va detratto dall’ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del terzo responsabile del fatto illecito».

Anche in questo caso, la soluzione positiva poggia su una duplice considerazione: i) l’identica funzione perseguita, nonostante i diversi criteri di calcolo, dall’erogazione del beneficio e dal risarcimento del danno, in ipotesi di infortunio del lavoratore sulle vie del lavoro; ii) la previsione di un meccanismo di raccordo tra le prestazioni, che assicura al danneggiato di ricevere niente più che l’integrale riparazione del danno e al danneggiante di rispondere per l’intero delle conseguenze pregiudizievoli cagionate con la propria condotta (in virtù degli artt. 1916 cod. civ. e 142 cod. ass. priv. [d.lgs., 7 settembre 2005, n. 209]).

d) Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12567: «Dall’ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, deve sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento che la vittima abbia comunque ottenuto dall’Inps in conseguenza di quel fatto».

La soluzione positiva, anche in questo caso, è giustificata dalla coincidenza funzionale delle due prestazioni (indennità e risarcimento del danno in questione) e dalla previsione legislativa di un meccanismo di recupero, a nulla rilevando che questo non abbia qui la struttura della surroga (viene in particolare rilievo l’art. 41, l. 4 novembre 2010, n. 183: si badi, a conferma della “coessenzialità” di tale meccanismo ai fini dell’operatività della c.l.c.d., che il diffalco «è da intendersi limitato al valore capitale delle prestazioni indennitarie corrisposte successivamente all’entrata in vigore di detta legge».

  6. Accoglienza della dottrina nei primi commenti

Le sentenze dell’Adunanza plenaria e delle Sezioni Unite qui esaminate sono state apprezzate dai commentatori per lo spostamento del baricentro della questione della c.l.c.d. dal titolo alla funzione del vantaggio. Con riguardo alle Sezioni Unite, inoltre, è stato valutato positivamente l’approccio legato alla dimensione concreta delle fattispecie.

L’impostazione adottata dalle esaminate pronunce è stata però oggetto anche di alcune critiche in dottrina. In questa sede, per completezza del discorso, si riportano le principali.

Sul piano generale, anzitutto, alcuni hanno osservato che la struttura soggettiva della fattispecie (in particolare: l’identità o la diversità del soggetto che eroga il vantaggio e di quello obbligato al risarcimento) dovrebbe rimanere irrilevante ai fini della soluzione della questione della c.l.c.d. (la critica è stata formulata, sulla scorta delle osservazioni di G. De Nova, op.. cit., p. 58, dapprima con riguardo ad Ad. plen. 1/2018 [E. Bellisario, Divieto di cumulo fra equo indennizzo e risarcimento del danno, in Corr. giur., 2018, p. 528 ss. e S. Monti, Il Consiglio di Stato e la c.d. compensatio lucri cum damno, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, p. 1071 ss., le quali hanno altresì espresso perplessità di ordine tecnico-giuridico sulla “fusione dei rapporti obbligatori” operata dal Consiglio di Stato: v. supra, par. 3] e  poi con riguardo alle Sezioni Unite [E. Bellisario, Compensatio lucri cum damno: il responso delle Sezioni Unite, Danno e resp., 2018, p. 446 ss. e S. Monti, La compensatio lucri cum damno e il “compromesso innovativo” delle Sezioni Unite, in Danno e resp., 2018, p. 451 ss.]).

Alcuni autori hanno inoltre criticato la rilevanza attribuita dalle Sezioni Unite alla previsione normativa di un meccanismo di surroga o rivalsa, principalmente sulla scorta della considerazione che, in alcune ipotesi, il beneficio previsto dalla legge, pur senza tale meccanismo, è indubbiamente finalizzato a compensare in tutto o in parte lo stesso pregiudizio da cui sorge il diritto risarcitorio (E. Bellisario, ult. op. cit., p. 446 ss.; S. Monti, ibidem).

Non è stato poi da tutti apprezzato l’aggancio della motivazione alla prospettiva polifunzionale della responsabilità civile, come disegnata dalle Sezioni Unite sui “danni punitivi” (cfr. E. Bellisario, ult. op. cit., p. 446; v. anche M. Franzoni, La compensatio lucri cum damno secondo il Consiglio di Stato, in Danno e resp., 2018, p. 166).

Critiche significative hanno investito infine due delle singole fattispecie vagliate dal giudice di legittimità.

Con riguardo a Cass. civ., Sez. Un., n. 12565/2018, si è osservato che la motivazione non terrebbe conto, da un lato, dell’incompatibilità del principio indennitario con le polizze infortuni (attesa l’intrinseca indeterminabilità del valore del bene assicurato) e, dall’altro lato, della prassi del mercato assicurativo che, con riguardo a queste polizze, prevede – per renderle appetibili sul mercato – la rinuncia dell’assicuratore alla surroga, allo scopo di rendere possibile il cumulo tra indennizzo e risarcimento. Su tali clausole, sulla loro validità e sugli effetti del loro inserimento non si è però soffermata la sentenza (cfr. R. Pardolesi, P. Santoro, Sul nuovo corso della compensatio, in Danno e resp., 2018, p. 427 ss.).

Di segno contrario, infine, è la critica mossa da altra dottrina in relazione all’unica fattispecie in cui le Sezioni Unite hanno ammesso il cumulo, ossia la pensione di reversibilità: attesa la finalità compensativa di tale trattamento, si è detto, in particolare, che il mancato scomputo determina un arricchimento del beneficiario difficilmente giustificabile (P. Gallo, La compensatio lucri cum damno e i suoi confini, in Giur. it., 2018, p. 1347 ss.