11 Dicembre 2018

Institutio ex re certa e beni residui non oggetto di specifica destinazione da parte del testatore

di Matteo Ramponi, Avvocato Scarica in PDF

Cassazione Civile, Sezioni Unite, ordinanza n. 17122 del 28 giugno 2018

SUCCESSIONI “MORTIS CAUSA” – SUCCESSIONE TESTAMENTARIA – “Institutio ex re certa” – Coesistenza con la successione legittima – Esclusione – Fondamento – Fattispecie.

In tema di delazione dell’eredità, non vi è luogo alla successione legittima agli effetti dell’art. 457, comma 2, c.c., in presenza di disposizione testamentaria a titolo universale, sia pur in forma di istituzione “ex re certa”, tenuto conto della forza espansiva della stessa per i beni ignorati dal testatore o sopravvenuti.

Disposizioni applicate

Codice Civile, articoli 647, 457 comma 2, 588 comma 2 e 734 comma 2

[1] Con testamento olografo Tizio lasciava alla moglie, Caia, l’usufrutto e ai cugini Mevio e Sempronio la nuda proprietà di tutti i suoi beni. Col medesimo testamento onerava l’una e gli altri di costruire un sepolcro su di un lotto di cui egli era concessionario.

Realizzato il sepolcro e consolidatasi, alla morte di Caia, la proprietà piena in favore di Mevio e Sempronia (figlia di Sempronio), sorgeva controversia tra questi ultimi, da un lato, e Filana, dall’altro, alla quale Caia aveva a sua volta legato il sepolcro.

Tale controversia sfociava in una causa che Mevio e Sempronia promuovevano affinché fosse accertata, in tesi, la falsità del testamento olografo di Caia, e in subordine, l’inefficacia del legato di sepolcro ivi disposto in favore di Filana, perché la testatrice, in quanto soltanto usufruttuaria dei beni relitti da Tizio, non avrebbe potuto disporne mortis causa.

Il tutto previa eventuale disapplicazione della delibera della giunta municipale che aveva intestato a Filana il lotto cimiteriale.

Quest’ultima, dapprima, e gli eredi di lei, dopo, resistevano in giudizio ed eccepivano il difetto della giurisdizione ordinaria.

Il Tribunale rigettava la domanda nel merito, senza pronunciarsi espressamente sulla giurisdizione. Gli attori, affermava, non avendo né ereditato il lotto né costruito il sepolcro a loro spese, non avevano titolo a contestare il testamento di Caia e il diritto di lei di disporre del sepolcro stesso.

Tale sentenza era ribaltata dalla Corte d’appello, che in accoglimento del gravame dichiarava in favore degli eredi di Mevio e Sempronio il diritto di superficie sul lotto cimiteriale e quello di proprietà sul sepolcro ivi realizzato. A base della pronuncia veniva posta la circostanza che Mevio e Sempronio dovevano considerarsi eredi ex re certa del cugino Tizio, con la conseguenza che essi avevano ereditato ogni altro diritto di lui, inclusi quelli sul lotto cimiteriale in concessione e sul sepolcro ivi costruito.

Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso in Cassazione dagli eredi di Filana; resistevano in giudizio gli eredi di Mevio e Sempronio. Due erano i motivi di ricorso: il primo relativo alla giurisdizione; l’altro riguardante, invece, la legittimazione attiva di Mevio e Sempronio ad azionare il giudizio di primo grado.

La Suprema Corte dichiarava inammissibile il primo motivo; ma è sulla seconda questione che la presente indagine verrà focalizzata.

[2] ln particolare, infatti, con tale motivo di impugnazione veniva denunciato il difetto di legittimazione attiva e la violazione degli articoli 457, 565, 583, 587, 588 e 1362 del codice civile, in relazione ai nn. 3 e 4 dell’articolo 360 c.p.c., nonché l’omesso esame d’un fatto decisivo e discusso dalle parti. Veniva affermato che, quanto alla posizione di Sempronia, figlia di Sempronio cugino del de cuius, la rinuncia di suo padre all’eredità non la costituiva a sua volta chiamata per rappresentazione. Quanto a Mevio, l’istituzione d’erede ex re certa su beni specificamente indicati (a fortiori ritenendo la disposizione testamentaria come legato), diversi dal sepolcro, non avrebbe determinato in favore di lui l’acquisto anche di quest’ultimo bene, operando invece l’accrescimento a vantaggio del coniuge del testatore, Caia.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto non fondata la censura. Innanzitutto, hanno rilevato come la institutio ex re certa sia compatibile con l’accrescimento richiamando il principio già espresso dalla Cassazione (Sezione 2, sentenza n. 12158 del 11/06/2015): “in tema di delazione dell’eredità, non ha luogo la successione legittima agli effetti dell’articolo 457, secondo comma, c.c., in presenza di disposizione testamentaria a titolo universale, sia pur in forma di istituzione ex re certa, tenuto conto della forza espansiva della stessa per i beni ignorati dal testatore o sopravvenuti”. Al riguardo la Corte sottolinea come tale sia l’impostazione anche della “dottrina largamente maggioritaria, la quale osserva che la posizione dell’istituito ex re certa non è diversa da quella dell’erede pro quota, in favore del quale opera senz’altro la c.d. forza espansiva della delazione testamentaria, che riguarda anche i beni ignorati o sopravvenuti (e non solo quelli ignorati, come invece suppone parte ricorrente)”.

Inoltre, la sentenza epigrafata prende posizione anche su un’ulteriore questione assai dibattuta: se l’attribuzione in via testamentaria dell’usufrutto generale sui beni del defunto possa o meno considerarsi disposizione a titolo universale (ovviamente nelle forme della institutio ex re certa); e si afferma che essa è “secondo la dottrina dominante un legato e non un’istituzione di erede e dunque neppure pro quota avrebbe potuto determinarsi l’accrescimento in favore di Caia”.

[3] Diverse sono le riflessioni che la pronuncia in commento impone.

Dapprima merita di essere ricostruito il contrasto esistente (quantomeno sino alla pronuncia in commento) in dottrina e giurisprudenza circa la sorte dei beni non indicati nella scheda testamentaria, allorché vi sia stata un’attribuzione a titolo di erede mediante institutio ex re certa.

Autorevole, ma ormai risalente, dottrina, sosteneva che il testatore, attribuendo un bene determinato, sebbene in funzione di eredità, avrebbe non solo individuato la quota, bensì anche limitato l’attribuzione stessa. Sui beni residui (o perché ignorati dal testatore ovvero sopravvenuti), concorrerebbero solo ed esclusivamente gli eredi legittimi, dai quali dovrebbero essere esclusi gli istituiti ex certis rebus anche qualora rivestissero tale qualifica.[1]

A parziale correttivo della tesi sopra esposta, altri[2] ritengono che i beni non assegnati debbano sì essere attribuiti agli eredi legittimi, ma che si debbano comprendere tra questi anche i beneficiari della institutio, qualora rivestano tale qualifica. A sostegno di tale impostazione, viene richiamato il disposto del secondo comma dell’articolo 734 cod. civ., a norma del quale, se nella divisione fatta dal testatore non sono compresi tutti i beni lasciati al tempo della morte, i beni in essa non compresi, sono attribuiti conformemente alla legge, se non risulta una diversa volontà del testatore.

Infine, altri affermavano che gli eventuali beni ulteriori dovessero essere attribuiti agli eredi testamentari in proporzione alle quote come determinate a posteriori. Tale tesi si basa sulla considerazione che una volta accertata la volontà del testatore di attribuire i beni in funzione di quota, debba coerentemente ammettersi la vis espansiva di tale quota all’intero patrimonio ereditario, posto che tale forza costituisce elemento essenziale di qualunque quota ereditaria[3].

Tale ultimo orientamento sembra oggi prevalere ed aver ricevuto una ulteriore conferma dalle Sezioni Unite della Suprema Corte.

E ciò appare coerente con la natura stessa della institutio ex re certa. È, infatti, innegabile che, da un punto di vista meramente logico, nel momento in cui il testatore ha redatto il testamento, ha effettuato i propri ragionamenti sulla base del patrimonio esistente a quel momento ed ha attribuito gli specifici beni quali quota del “tutto” riferito a quell’epoca. Ed è per questa ragione che il legislatore riconosce ad una tale disposizione natura di chiamata a titolo universale.

Se così è, deve coerentemente affermarsi che tale chiamata sia idonea a far acquisire al chiamato la generalità dei rapporti di cui il testatore non abbia disposto. Succedendo a titolo di erede, infatti, l’istituito diviene titolare della globalità dei rapporti facenti capo al de cuius e trasmissibili mortis causa (sia conosciuti che ignorati dal testatore al momento della redazione del testamento od anche pervenutigli successivamente).

Ma tale affermazione, è idonea ad escludere l’operare della successione legittima?

Autorevole dottrina[4] distingue a seconda che il testatore abbia volutamente omesso dei beni dal testamento ovvero non ne conoscesse l’esistenza o siano sopravvenuti: nella prima ipotesi, dovrebbe concludersi per l’apertura della successione legittima. Nella seconda, invece, sarebbe preminente il ruolo della volontà del soggetto disponente, volta a istituire erede in una quota (indirettamente) determinata quel soggetto, in proporzione all’intero suo patrimonio esistente al momento della redazione.

In realtà, una simile differenziazione non appare giustificata. Come affermato da un autorevole autore, [5] una volta accertata la volontà del testatore di assegnare determinati beni come quota di eredità, o quale chiamata universale dell’unico soggetto istituito, non possono non discenderne tutti gli effetti che il sistema, nella sua coerenza, le attribuisce ivi compresa la sua forza espansiva. E non si rinviene alcuna eccezione a tale generale principio che giustifichi una esclusione di tale effetto.

[4] Il secondo aspetto che richiede una, in questa sede rapida, riflessione è quello relativo alla disposizione dell’usufrutto generale mediante testamento.

Tale disposizione configura una attribuzione a titolo particolare od universale?

La sentenza qui commentata, liquida la questione in poche righe, senza entrare in alcun dettaglio, ma limitandosi a riportare la posizione della dottrina considerata maggioritaria, pur dandosi atto dell’esistenza di alcune sentenze di legittimità di segno opposto.[6]

Le ragioni che portano all’adesione all’impostazione assunta dalle Sezioni Unite si basano su due principali argomenti.

In primis, il diritto di usufrutto, avente per sua natura durata limitata nel tempo, si porrebbe in contrasto con il principio semel heres, semper heres, in ragione del quale la chiamata a titolo di erede deve avere carattere di perpetuità.

In secondo luogo, si realizzerebbe una indebita limitazione di responsabilità in capo ad un erede, posto che, ai sensi dell’articolo 1010, 1° comma, cod. civ. egli non risponderebbe illimitatamente di tutti i debiti ereditari, ma solo delle “annualità e interessi dei debiti o dei legati da cui l’eredità stessa sia gravata”.

In realtà, la situazione è molto meno lineare di come appare. Dall’esame delle sentenze di segno opposto, che paiono ammettere la possibilità di una ricostruzione della fattispecie in termini di lascito a titolo universale, emerge come quando si afferma che l’attribuzione dell’usufrutto generale possa collegarsi alla qualifica di erede, lo si fa sempre con la precisazione che dirimente è l’esame dell’intenzione del testatore: è quando si rinviene una volontà in tal senso orientata che potrebbe parlarsi di eredità, dovendosi, in difetto, concludere per la natura di legato dell’attribuzione stessa. Sarebbe, dunque, possibile realizzare, attraverso una simile disposizione, una institutio ex re certa.

E sul punto, stante le scarne motivazioni riportate nella sentenza in commento, non si può affermare con certezza che essa abbia messo la parola fine alle discussioni che sono sorte e (molto probabilmente) continueranno a porsi al riguardo.

[1] CARAMAZZA, Delle successioni testamentarie, in Commentario al codice civile a cura di De Martino, Roma, 1976, pagg. 35 ss.; BARBERO, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, Torino, 1951, pag. 821.

[2] GANGI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, Milano, 1960, pag. 381; CAPOZZI, Successioni e donazioni, Milano, 2009, pag. 82, modificando la posizione assunta nelle precedenti edizione del proprio lavoro, ove riteneva che non potesse non trovare applicazione nelle ipotesi in esame il generale principio della vis expansiva della quota ereditaria.

[3] TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, 2001, pagg. 862 ss.; TORRENTE-SCHLESSINGER, Manuale di diritto privato, Milano, 2007, pagg. 894 ss.; AMADIO, L’oggetto della disposizione testamentaria in Successioni e donazioni a cura di Rescigno, I, Padova, 1994, pag. 916; MENGONI, La divisione testamentaria, Milano, 1950, pag. 13.

[4] TRABUCCHI, Nota a Cass., 23 marzo 1963, n. 737, in Giurisprudenza Italiana, 1964, I, 1, pag. 186.

[5] BONILINI, Institutio ex re certa e acquisto, per virtù espansiva, dei beni non contemplati nel testamento, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni diretto da G. Bonilini, Tomo II, La successione testamentaria, pagg. 246 ss.; si veda altresì TATARANO, Il testamento, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da Perlingieri, Napoli, 2003, pag. 364.

[6] È la pronuncia stessa che richiama le precedenti sentenze n. 13310/2002 e n. 2617/2005, ove si afferma che “l’attribuzione dell’usufrutto generale non costituisce assegnazione di legato, ma istituzione di erede”.