6 Luglio 2015

Aspetti processuali del contenzioso tra cooperativa e socio lavoratore

di Alessandro Benvegnù Scarica in PDF

Le controversie tra cooperativa di produzione e lavoro e socio lavoratore pongono delicati problemi di rito applicabile e di riparto di competenza fra tribunale delle imprese e tribunale in funzione di giudice del lavoro. A questi problemi dedichiamo il Focus della settimana.

 

Premessa

Negli ultimi tre lustri l’esatto inquadramento processuale e l’individuazione del giudice competente in caso di contenzioso fra un socio lavoratore e una società cooperativa è stato soggetto a varie revisioni, tanto per orientamenti giurisprudenziali, quanto per interventi normativi. Si vuole qui cercare di ricapitolare i passaggi più salienti di questi anni e di dare così delle indicazioni a chi si accinge a promuovere una vertenza, o resistere a una pretesa avversaria, in questa materia.

Nel 1998 le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza 30 ottobre 1998 n. 10906, avevano ricondotto alla disciplina lavoristica il rapporto tra socio lavoratore e cooperativa, individuando negli elementi che lo caratterizzavano una serie di indici formali che portavano a estendere al socio lavoratore le tutele dettate sul piano sostanziale al lavoratore subordinato. Da questo inquadramento discendeva, in guisa di corollario, la parificazione della tutela processuale, con la conseguente applicazione del rito del lavoro ai sensi dell’art. 409 n. 3 c.p.c. Dunque il tribunale, in funzione di giudice del lavoro, avrebbe giudicato sulla posizione complessiva del socio e sul  suo rapporto di lavoro con la cooperativa.

Pochi anni dopo è intervenuta la l. 3 aprile 2001 n. 142, con l’intento di distinguere il rapporto sociale dal rapporto di lavoro; onde il “rapporto associativo” veniva trattato secondo il rito ordinario; mentre il rapporto di lavoro  – “in qualsiasi forma instaurato” dalla cooperativa con il socio, secondo il regolamento interno prescritto dall’art. 6 della legge – rimaneva assoggettato al rito del lavoro. Il rischio di duplicazione dei giudizi veniva poi scongiurato dall’art. 40 c.p.c., che prevede la trattazione unitaria di entrambe le cause secondo il rito lavoro.

Dopo soli due anni, la l. 14 febbraio 2003 n. 30 abbandona il precedente criterio di riparto e dispone che soltanto le controversie tra socio e cooperativa “relative alla prestazione mutualistica” sono di competenza del Tribunale ordinario –  e soggette in passato al rito societario ex d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, fino alla sua abrogazione con l. 18 giugno 2009, n. 69.

Secondo l’interpretazione fornita dalla Cassazione, ord. 18 gennaio 2005 n. 850 per “prestazione mutualistica” bisogna intendere quell’utilità che la società fornisce agli associati a condizioni più vantaggiose rispetto a terzi (ad es. la distribuzione del ristorno); mentre le altre vertenze rimangono in linea di massima assoggettate al rito del lavoro.

La Corte Costituzionale, con pronuncia del 28 dicembre 2006 n. 460, in Riv. It. Dir. Lav., 2007, II, 540 con nota di Imberti, ha poi dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità in relazione a tale innovazione normativa, confermando la non irragionevolezza e arbitrarietà di tale regola processuale, volta a distinguere in questa materia tra questioni da trattare secondo il rito ordinario e questioni da trattare con il rito lavoro.

Va infine segnalato che, per espressa disposizione di legge, l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori non si applica in caso di contestuale cessazione del vincolo associativo unitamente alla cessazione del rapporto di lavoro, fatto per cui il socio lavoratore, escluso dalla compagine sociale ( quindi anche a seguito di mancata, tempestiva, impugnazione della delibera sociale di esclusione), non può essere reintegrato nel posto di lavoro, anche ove in un successivo momento si accertasse l’illegittimità del licenziamento contestualmente intimato (art. 2 l. 142/2001, già nel testo originario).

 

Quando ricorrere al giudice del lavoro

Un primo metodo per evitare la rimessione della vertenza tra socio lavoratore e cooperativa al Tribunale ordinario è eccepire la natura simulata e fittizia del rapporto societario, chiedendo l’accertamento di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato con la società (così Trib. Milano 26 maggio 2006, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2006, 641 nota di Laratta-Romanotto).

Il relativo onere probatorio incombe infatti sulla società, cui spetta dimostrare la sussistenza e genuinità del rapporto associativo, dovendosi altrimenti presumere che il rapporto sia da qualificare lavoro subordinato (Cassazione Sez. lavoro, 8 febbraio 2011, n. 3043 in Dir. e Pratica Lav., 2013, 38, 2266).

Nel caso il lavoratore promuova due distinti giudizi, uno con cui contesti secondo il rito ordinario l’illegittima esclusione dalla compagine sociale e altro con cui, secondo le forme del rito lavoro, assuma illegittimo il licenziamento intimatogli, la Cassazione con ordinanza 3 maggio 2005 n. 9112 aveva escluso l’esistenza di un rapporto pregiudizialità dipendenza tra l’esclusione del socio e l’impugnazione del licenziamento, stante la natura autonoma e distinta dei due rapporti.

Comunque, già nell’immediatezza della pubblicazione della l. 142/2001, il Tribunale di Lecce, ord. 14 agosto 2003, in Foro it. 2003, I 3451, ha però  osservato come il provvedimento di esclusione trascolora sempre nel recesso dal rapporto di lavoro, indipendentemente dalla ragione addotta, per cui ontologicamente la questione deve necessariamente essere deferita al Giudice del Lavoro.

Non paiono porsi questioni invece in relazione a domande per mancato pagamento di mere differenze retributive, che restano di competenza del Giudice del lavoro (Tribunale di Parma, ord. 1 marzo 2004 in Lav. Giurispr., 2004, 10, 977),  così come la sola impugnazione dell’esclusione dalla società, senza dedurre contestazioni relative al rapporto di lavoro, spetta al Giudice ordinario (così Tribunale di Bologna, ord. 23 settembre 2013).

 

Il Tribunale delle Imprese e la (ri)nascita di un possibile conflitto di competenza-soluzione

Con la modifica effettuata dalla l. 24 marzo 2012 n. 27 dell’art. 3 dlgs. 27 giugno 2003 n. 168, con cui si è stabilita la competenza per attrazione del ridisegnato “Tribunale delle imprese” di tutte le cause connesse a questioni societarie, sembra ripresentarsi il problema già affrontato in relazione al rito c.d. societario: nel caso di impugnazione sia del licenziamento che della connessa delibera di esclusione del socio, il citato art. 3 citato sembrerebbe far prevalere il Tribunale delle imprese e la relativa procedura regolata secondo il rito ordinario.

In tempi recenti Cass., 27 novembre 2014, n. 25237, in Le Società, 5, 2015 p. 578, con nota di Buoncristiani ha stabilito che l’art. 40 c.p.c. comma terzo comporta la prevalenza del Giudice del Lavoro anche sul Tribunale delle Imprese, confermando ancora una volta la competenza del primo e l’applicazione del rito del lavoro nel caso di impugnazione sia della delibera di esclusione dalla società che del licenziamento del socio lavoratore (analoga questione era stata nel frattempo sollevata d’ufficio ex art. 45 c.p.c. da Trib. Bologna, ord. 24 giugno e Trib. Torino, ord. 9 luglio 2014).

L’esistenza di una clausola arbitrale

Pur scomparso per abrogazione il rito societario, per effetto della legge 69/2009, permane la disciplina prevista dal d.lgs. 5/2003 in tema di arbitrato societario, che gli statuti delle società cooperative di produzione e lavoro ben possono prevedere per tutte le controversie che possono insorgere tra soci e società e tra soci e organi sociali.

In questo caso, esclusa l’applicabilità dell’art. 295 c.p.c., nulla pare impedire una cognizione meramente incidentale della questione soggetta alla clausola compromissoria da parte del Giudice del Lavoro.