26 Marzo 2019

Anche le “in house”, in quanto società di capitali, falliscono

di Gian Luca Grossi - Studio Pirola Pennuto Zei & AssociatiMarcello Guerzoni - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati Scarica in PDF

Corte di Cassazione Civile, Sez. I, sentenza 5 dicembre 2018, n. 5346 (pubblicata il 22 febbraio 2019)

Parole chiave: società di capitali con partecipazione pubblica – partecipazioni possedute da enti pubblici – natura della società – disciplina speciale – disciplina ordinaria società di capitali – fallimento

Massima: “La scelta del Legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, in ogni caso comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto e attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità”.

Disposizioni applicate: art. 1 l.f..

La sentenza in commento offre un interessante spunto per verificare lo “stato dell’arte” in merito al tema, invero assai dibattuto negli ultimi anni, della disciplina applicabile alle così dette società “in house”, ossia a quelle persone giuridiche che pur avvalendosi del veicolo societario privatistico (società di capitali) sono partecipate da comuni, enti comunali ovvero da soggetti pubblici e sulle quali questi ultimi esercitano un “controllo analogo” (al fine di consentire al socio pubblico di esercitare un’influenza dominante sulla società). A ben vedere la questione oggetto di maggiori discussioni, tuttora non sopite, riguarda(va) la fallibilità o meno di tali peculiari società.

Nella fattispecie il Tribunale di Pescara dichiarava il fallimento, su domanda del liquidatore, di una società partecipata da diversi comuni. La Corte d’Appello, in sede di reclamo ex art. 18 L.F., revocava il fallimento della società (per la sua natura di “in house”) stante, ad avviso della Corte territoriale, la “non assoggettabilità di un simile tipo sociale a fallimento per essere la società in qualche misura parificabile agli enti pubblici” (l’art. 1 L.F., infatti, esclude espressamente dal suo ambito di applicazione gli enti pubblici). La Curatela del fallimento ricorreva quindi per Cassazione sulla base di un unico motivo: la violazione e falsa applicazione dell’art.1 c. 1 L.F. e dell’art. 4 della legge n. 70 del 1975, considerata l’alterità soggettiva della società in house rispetto agli enti pubblici partecipanti.

Com’è noto i caratteri salienti di tale figura sono i) la partecipazione integrale da parte di enti pubblici, con impossibilità di cedere le quote a terzi; ii) lo svolgimento di attività solo in favore dei soci-pubblici e iii) il cd. “controllo analogo” (cfr. in particolare art. 16 D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175 Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica). La in house, è stato detto, non è altro che una “longa manus della Pubblica Amministrazione”, ragion per cui, come più volte ribadito dalla Giurisprudenza Costituzionale, l’affidamento in regime di “delegazione interorganica costituisce “un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica” (cfr. Corte Costituzionale 20 marzo 2013, n. 46).

Orbene, la Prima Sezione, ai fini della risoluzione della questione di diritto ad essa sottoposta, richiama in primis l’orientamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo cui la società di capitali a partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché gli enti pubblici (Comune, Provincia e simili) ne posseggano le partecipazioni, in tutto o in parte, non assumendo rilievo alcuno, per le vicende della società medesima, la persona dell’azionista, dato che la società, quale persona giuridica privata, opera comunque nell’esercizio della propria autonomia negoziale”(cfr. Cassazione, SS. UU., 15 aprile 2005 n. 7799). Tale opinione, è bene ricordarlo, si è consolidata nella Giurisprudenza di Legittimità, secondo la quale l’applicazione delle regole di diritto comune trovano “fondamento nell’incontestabile rilievo che il rapporto tra società ed ente pubblico è di assoluta autonomia(cfr. Cassazione 27 settembre 2013, n.22209), comprovata dall’impossibilità per il Comune di incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo (e sull’attività dell’ente collettivo) mediante poteri autoritativi e/o discrezionali.

Al fine di sottolineare siffatta alterità (società/ente pubblico) la Cassazione, in commento, ricorda l’insegnamento del Consiglio di Stato secondo il quale il “controllo analogo esercitato dall’amministrazione sulla società partecipata … deve consentire all’azionista pubblico di svolgere un’influenza dominante su quest’ultima … e tuttavia questa relazione interorganica non incide affatto sull’alterità soggettiva dell’ente societario nei confronti dell’amministrazione pubblica, dovendosi mantenere infine pur sempre separati i due enti – quello pubblico e quello privato societario … in quanto la società in house rappresenta pur sempre un centro di imputazione di rapporti e posizioni giuridiche soggettive diverse dall’ente partecipante” (Cfr. Consiglio di Stato, Sez V, 29 maggio 2017 n. 2533).

Appurato quindi come la natura di società in house non incida sulla personalità giuridica e sui caratteri ontologici dell’ente societario, prosegue la Cassazione osservando come la stessa non comporta nell’ambito dell’ordinamento nazionale “alcuna apprezzabile deviazione rispetto alla comune disciplina privatistica delle società di capitali, nel senso che la posizione dei comuni all’interno della società è unicamente quella di socio in base al capitale conferito”.

Tale considerazione, a ben vedere, è prodromica e determinante anche ai fini dell’ulteriore passaggio della Corte, ossia dell’applicabilità della disciplina fallimentare. La Prima Sezione precisa infatti come l’art. 1 L.F. “esclude dall’area della concorsualità gli enti pubblici, non anche le società pubbliche. Per queste trovano applicazione le norme del codice civile … nonché quelle sul fallimento, sul concordato preventivo”.  Invero, la scelta del Legislatore di realizzare determinate attività di interesse pubblico tramite lo strumento privatistico delle società capitalistiche “comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall’ordinamento … che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato”.

La Corte, affermati tali principi, ha così accolto il ricorso della Curatela del fallimento, cassando con rinvio la sentenza della Corte d’Appello.